I "Santi Diecimila crocifissi” delle Dimesse

santi 10mila crocifissi 02Nella chiesa di San Rocco in queste ultime settimane (settembre 2010) è stata fatta la manutenzione ordinaria di alcuni dipinti, resa possibile grazie alla generosità del “Gruppo Tradizioni e Folclore - Le Contadine” e di quello legato alla devozione della Santella di Fatima.

La restauratrice Alessandra Baiguera, della ditta “Ochra - Decorazione e restauro” di Castenedolo, con il socio Gabriele Bono e il collaboratore Lorenzo Frigoni, hanno provveduto a rimettere a nuovo anzitutto l’anonima tavola cosiddetta della Divina Provvidenza (prima campata a destra), che raffigura Gesù nell’atteggiamento dell’Ecce Homo, e insieme ad essa la sua fastosa cornice dorata e il paradisino soprastante. Il titolo della Provvidenza è dovuto, secondo una vecchia tradizione, all’uso nei secoli passati di deporre ai piedi del dipinto il pane avanzato nella giornata, perché anche chi in quel giorno non ne aveva potesse approfittarne. Poi è stata liberata dalla polvere e dagli acciacchi del tempo la bella tela dell’Angelo Custode (secondo altare a destra), dipinta da Ferdinando Cairo nel 1718 su commissione del sacerdote Stefano Zopetti, come è scritto alla base del quadro, appena sotto lo stemma della sua famiglia patrona dell’altare realizzato tre anni prima (cfr. Casanova, 1997d). E ancora sono state rimosse le incrostazioni di polvere che appannavano la grande tela del Giudizio Universale (lato destro del presbiterio, in cornu epistulae, come si diceva una volta), firmata e datata da Gian Giacomo Pasino detto Usignolo da Soresina nel 1620 (cfr. Casanova, 1996a), e la pala dell’altare del Crocifisso coi santi Firmo e Carlo Borromeo (secondo altare a sinistra), di autore ignoto del primo ‘600, dall’ancona marmorea purtroppo irrimediabilmente deteriorata per le infiltrazioni di umidità.

Tutte le opere ripulite, a detta della restauratrice, sono per fortuna abbastanza ben conservate, nonostante gli inevitabili segni dell’età, e si trovano ancora praticamente sui loro supporti originari, non avendo subìto nel tempo rimaneggiamenti rilevanti.

Un quadretto un po’ strano

Ma fra le tele ripulite con cura e rispetto dalla signora Baiguera c’è anche un quadro, che scommetto non molti quinzanesi ricorderanno di aver visto, per lo meno mai da vicino: è un dipinto non troppo grande, di forma pressoché quadrata, che da tempo immemorabile si trova appeso sopra la bussola della porta laterale destra nella chiesa di San Rocco, in una strana collocazione lontana dalla vista. In realtà la dimensione e la minuziosità con cui l’artista ha raffigurato la scena, nonché alcuni dettagli che diremo, rivelano con evidenza che l’immagine fu realizzata tra ‘500 e ‘600 per la devozione di un privato, piuttosto che per essere esposta in una chiesa, e certamente non è nata per stare là dove oggi si trova.

Una raffigurazione decisamente inusuale: è dominata in alto da un cherubino con due rami di palma nella mano destra e una corona d’alloro nella sinistra; sotto di lui una selva di pali e di croci caricate di numerosi corpi di martiri, coronati di spine e appesi nelle maniere e nelle pose più strane; due in primo piano a sinistra, ad esempio, sono inchiodati a dei tronchi spogli con le mani dietro la schiena e trafitti da rami appuntiti; un terzo è legato contorto a testa in giù a cavallo tra due alberi; al di sopra grondano sangue due gambe mozze infilzate a spuntoni. Sullo sfondo della scena alcuni bianchi edifici alludono a una città; più lontano lo scorcio di una cerchia di montagne.

In primo piano a destra campeggia un personaggio regale barbuto, con manto, corona e scettro dorati, assiso su un trono decorato di una testa di leone, sotto un pesante drappo verde che pende dalle fronde di una quercia; è nell’atto di giudicare un prigioniero legato e sanguinante, condottogli davanti da uno sgherro scamiciato in calzoni d’un arancio brillante. Davanti al sovrano, alla base del quadro a destra, un guerriero di spalle in elmo e corazza discorre con un notabile barbuto abbigliato con un copricapo conico all’orientale. Nell’angolo opposto, ai margini della storia, due soldati a mezzo busto: uno è singolarmente brutto e rappresentato di profilo, mentre l’altro è bello, porta la barba e i baffi ben curati, una corazza raffinatamente adorna e una lunga picca sulla spalla sinistra.

Accanto all’ultimo personaggio, appena sopra la sua spalla destra, uno stemma dipinto con accuratezza: nello scudo marmoreo dal profilo abilmente sagomato campeggia in monocromo una fontana zampillante a tre vasche di grandezza decrescente: l’inferiore di forma quadrangolare, l’intermedia emisferica e la superiore circolare; ai lati della vasca centrale posano due colombe affrontate, anzi per essere precisi due “piccioni”. Infine sul bordo inferiore della tela, prima nascosta dalla cornice originale azzurra e argento, una scritta a modo di didascalia, che recita «LA SVA FESTA ALLI XXII GIVGNO».

I santi “Diecimila crocifissi del monte Ararat”

La scritta e lo stemma sono, ciascuno per la sua parte, rivelatori. Anzitutto la didascalia, che fissa la ricorrenza annuale di quello strano molteplice martirio al 22 giugno: in effetti, il Martirologio Romano del cardinal Baronio (sec. XVI) commemorava appunto a quella data «In monte Ararath passio sanctorum Martyrum decem millium, crucifixo-rum» (“la passione dei diecimila santi martiri crocifissi sul monte Ararat”).

La tradizione leggendaria, relativa a un presunto episodio avvenuto durante una campagna militare degli imperatori Adriano e Antonino Pio (prima metà del II sec. d.C.) in Armenia, ai limiti orientali dell’Anatolia, racconta che, dopo il ritiro degli imperatori da una guerra contro le popolazioni di quelle terre, novemila soldati romani rimasti a presidiare la regione, spronati da un angelo, avevano sconfitto dei nemici assai più numerosi. Poi, sotto la guida dell’angelo e del loro centurione Acacio, si erano accampati sul monte Ararat, attendendo per un mese nella preghiera il ritorno degli imperatori e nutrendosi della manna che cadeva per loro dal cielo. Informato del successo dei suoi, Adriano li aveva sollecitati a sacrificare agli dèi in ringraziamento per la vittoria, ma i soldati ormai convertiti al cristianesimo naturalmente non vollero farlo, nemmeno costretti dai sette re pagani alleati che l’imperatore aveva inviato a persuaderli. Per questo rifiuto, i novemila soldati cristiani furono flagellati, coronati di spine, lapidati e torturati in vari modi, ma senza altro risultato se non la conversione di altri mille compagni che si unirono a loro, compiendo il numero di diecimila. A questo punto Adriano li fece crocifiggere o impalare tutti quanti, ed essi subirono il martirio al suono di una voce celeste che prometteva la salvezza a chi in futuro li avrebbe invocati.

Un oggetto di devozione davvero piuttosto insolito e particolare: gli antichi elenchi menzionano diversi gruppi di migliaia di martiri (i più celebri sarebbero i “Martiri di Nicomedia”, il cui numero varia nelle fonti da ventimila a mille e tre; però sono menzionati nel Martirologio antico al 18 marzo e in quello più recente al 23 giugno, quindi l’identificazione del dipinto quinzanese con questo episodio è esclusa). Certo la vicenda dei “Diecimila crocifissi” dell’Armenia nei termini in cui è riportata dalla tradizione non è credibile, come attesta la presenza dei due imperatori Adriano e Antonino Pio, i quali non regnarono mai insieme, né si ha notizia che pubblicassero editti contro i cristiani. Se qualche credibilità si vuol dare all’episodio, si dovrebbe comunque ritenerlo un caso isolato e limitato ai territori del confine orientale dell’impero (un indizio indiretto potrebbe essere la presenza di quei “sette re pagani” incaricati da Adriano di portare a termine la strage).

È da notare comunque che il culto di questi martiri ebbe un certo risveglio nel bresciano intorno ai secoli XVII e XVIII: un dipinto dei Diecimila martiri crocifissi sul monte Ararat di ignoto autore era collocato sul secondo altare nella chiesa di San Giovanni a Brescia dei canonici regolari di San Salvatore verso la metà del ‘700 (cfr. Carboni, 1760, p. 46); e se pare che a Piacenza se ne celebrasse annualmente la festa in seguito a un voto fatto in occasione della peste del 1630, il Faino (1658, p. 227) attesta che nel villaggio di Bogliaco presso Gargnano, sul lago di Garda, sorgeva un oratorio col titolo dei «Decem mille Crucifixorum» (“diecimila cro-cifissi”).

In ogni caso, l’iconografia dell’inedito dipinto in San Rocco coincide assai bene con la narrazione dell’episodio che abbiamo riferito: il sovrano in trono allude all’imperatore Adriano; i martiri sono crocifissi o impalati e portano quasi tutti una corona di spine; i monti all’intorno sarebbero quelli della regione dell’Armenia, e un angelo domina la scena coi simboli del martirio (il modello più diretto cui può essersi ispirato il pittore è probabilmente il dipinto dello stesso soggetto realizzato da Vittore Carpaccio nel 1515, oggi a Venezia presso le Gallerie dell’Accademia).

La famiglia di Giovanni Pizzoni

Ma c’è un altro elemento non meno importante per la storia del quadro che ci interessa di ricostruire, ed è il blasone della fontana coi due “piccioni”. Sì, perché si tratta dello stemma parlante della famiglia Pizzoni (o Piccioni appunto), originaria di Lodi, e trasferita verso la fine del ‘500 nel bresciano, a Verola Alghise (oggi Verolanuova), quindi a Quinzano. Il medico e cronista quinzanese Giovanni Gandino nel suo Alveario cronologico (un manoscritto del primo ‘700 conservato con cura e passione dal signor Pietro Gandaglia, che come sempre ringraziamo di cuore per averci permesso di trascriverlo e pubblicarlo) rileva infatti che (p. 270) «La Nobile Famiglia Pizzoni dallo Stemma di due Pizzoni, che bevono in una Fontana di marmo artificialmente in Campo d’Aria rissorgente prende il Cognome e la lei Origine dalla Città di Lodi, Ove ancora per soggietti nell’arme, Lettere e Virtù con distinto Lustro si conserva». Poi, preso dall’estro della sua immaginifica retorica, il buon cronista barocco si diffonde sui pregi della famiglia che «con il suo volo, (passati li Fiumi Adda Pò ed Olio) ha anche qui nel Bresciano fatto un nido, da che copiosi naquero parti à loro Maggiori uniformi, e che molto con sue Nobile, Generose e virtuose attioni non meno se stessi che le loro Patrie fregiorno».

Quindi informa che «quelli che di qua passorno presero le sue habitatione prima in Virola Alghise, e poi in Quinzano», e si sofferma su Paolo, figlio di Girolamo e Maddalena Loda, il capostipite del ramo della famiglia trapiantato in Quinzano, «Homo ne maneggi di comendata prudenza e di Costumi pij ed’ eleganti ben adorno». La notizia più significativa per noi è che questo Paolo Pizzoni «Fu quello che col proprio eresse l’Altare nella Chiesa di Santa Maria del Convento delli Padri di Quinzano, con la palla [=pala] effigiata del Crocifisso sopra cui in un angolo della medema appare anco la lui Effigie in atto orante con la soscritione del lui nome, dell’anno dell’eretione "Iussu Pauli Pizzoni 1602. Camillus Peregrinus Fecit"». Cultore dell’arte pittorica, quindi, oltre che devoto del crocifisso, il quale, forse per lascito testamentario, si fece ritrarre con nome e cognome dal pittore oriundo quinzanese Camillo Pellegrino come committente di una pala (oggi perduta) per un altare nella chiesa di Santa Maria delle Grazie presso il locale Convento dei Minori Osservanti.

Va detto che Giovanni Gandino aveva una conoscenza diretta e precisa della famiglia Pizzoni, per il semplice fatto che sua madre Vittoria era figlia del notaio Giovanni Pizzoni, figlio di questo Paolo. Del nonno Giovanni, un personaggio dalla vita alquanto movimentata, parla a lungo l’omonimo nipote in una vivace e ammirata scheda biografica alle pp. 276-77 del suo Alveario (ripresa poi nel Giardino de Letterati di Quinzano, alle pp. 217-20).

Giovanni Pizzoni era fratello dei più celebri Giovan Maria (1567circa-1637) e Agostino (1582-1646), ambedue sacerdoti, il primo compositore e maestro di cappella rinomato ai suoi tempi, forse amico e sicuramente editore del sommo madrigalista Luca Marenzio; il secondo autore della più nota e saccheggiata cronistoria di Quinzano, pubblicata a Brescia nel 1640. In gioventù Giovanni Pizzoni si era trovato implicato in un attentato compiuto ai danni di un avversario da un cavaliere suo sodale presso l’Oglio a Bordolano (ma aveva un alibi, trovandosi in quel momento a Innsbruck per interessi di famiglia); sfuggito rocambolescamente all’arresto, si consegnò poi spontaneamente alle autorità, trascorrendo qualche tempo a Venezia, dove si dilettò di filosofia, e infine venne assolto e liberato per non aver commesso il fatto.

Di mestiere era notaio, e fece anche una brillante carriera, divenendo cancelliere del Sant’Uffizio dell’Inquisizione di Brescia, e alto funzionario del Territorio (oggi diremmo la provincia), ma rifiutò i titoli e gli onori che gli vennero offerti, per la mancanza di figli maschi a cui tramandarli. Viveva per il solito in città, dove morì il 27 febbraio 1633, venendo sepolto nella chiesa di San Lorenzo; ma usava passare le vacanze in Quinzano, dove portava ogni anno una valigia di regali per nipoti e amici.

Si sposò tre volte: prima con Anastasia Sora, dalla quale ebbe le figlie Paola e Vittoria (la madre del cronista Gandino); poi con Margherita Nassina, e infine con la bresciana Virginia Rebusca, che gli sopravvisse. In casa Gandini se ne conservava un ritratto, che viene riprodotto in penna al principio della sua biografia nel Giardino de Letterati di Quinzano (p. 217).

Un legato artistico per le Dimesse di Quinzano

Il paziente lettore a questo punto si domanderà perché una lunga digressione su Giovanni Pizzoni, quando l’argomento della presente comunicazione dovrebbe essere il quadro dei Diecimila crocifissi conservato in San Rocco e in questi giorni ritornato a piena luce.

È presto detto: lo stesso nipote cronista, nelle pagine del suo Alveario dedicate alla storia del collegio delle Dimesse del Santissimo Sacramento nel Castello di Quinzano, segnala un dettaglio interessante (p. 558): «Sono poi molto riguardevoli tra li altri legati lasciati al Colegio quello di Donna Verginia Rebusca da Brescia di som‹m›a notabile di denaro, e di Giovanni Pizoni nostro materno Avo marito in 3 voto della sudetta di denaro considerabile, e specialmente di piture sacre fra le quali riesce notabile una Anonciata et il Quadro specioso delli dieci milla martiri celebrati li 22 di Giugno».

Veniamo a sapere, così, che Giovanni Pizzoni, con la sua terza moglie donna Virginia Rebusca, lasciarono in morte considerevoli somme di denaro alle Dimesse quinzanesi, nonché alcuni dipinti di soggetto sacro, tra i quali si distinguevano in particolare una Annunciazione e un quadro dei Diecimila martiri festeggiati il 22 giugno. Del primo non c’è gran che da dire, se non che è improbabile identificarlo col grande telero raffigurante la Madonna Annunciata con l’Angelo e la Trinità, firmato e datato «BARVGVS FACIE(bat) 1609», oggi nella chiesa maggiore della Pieve (prima campata a sinistra), ma proveniente dalla distrutta chiesa di Santa Maria delle Grazie presso il Convento francescano, che fino alla sua distruzione nel 1810, sorgeva alla periferia nord-occidentale del paese: questa teatrale Annunciazione doveva costituirne la degna pala dell’altare maggiore, come attestano il titolo della chiesa e la festa patronale che vi si celebrava il 25 marzo.

Quanto al secondo dipinto legato dal Pizzoni alle Dimesse, è facile riconosce il quadro specioso dei Diecimila martiri nella tela di San Rocco, opera di buona mano d’ambito bresciano, realizzata a cavallo dei secoli XVI e XVII per accondiscendere a una devozione domestica e privata del committente (forse un ex-voto per lo scampato pericolo della falsa imputazione?), e non per essere posta in una chiesa, date le sue dimensioni relativamente modeste. Del resto, non è per niente improbabile che il giovane soldato con la picca, dai bei tratti cortesi, con barba e baffi curatissimi, che volge gli occhi dal lato dello stemma coi “piccioni”, sia identificabile nello stesso committente don Giovanni Pizzoni: a questa identificazione non si oppone, del resto, il confronto col già menzionato ritratto del personaggio in età più matura, al principio della sua biografia nel volume del Giardino dettato dal nipote.

E se potesse parer strano che il donatore, devoto verso quei santi martiri così singolari, si facesse rappresentare nelle vesti di soldato romano, non va dimenticato che soldati romani erano appunto tutti i Diecimila martiri: anzi, il confronto ravvicinato tra il grugno animalesco del milite di profilo a sinistra dello stemma e lo sguardo sereno e ispirato di quello sulla destra potrebbero inquadrare in maniera espressiva e individualizzata l’antitesi tra il persecutore e il martire, usciti entrambi dalle file del medesimo esercito.

Il fatto che il Pizzoni non ebbe discendenza di maschi che propagassero l’eredità di famiglia, può spiegare perché egli abbia destinato quel segno della sua devozione privata alle Dimesse del suo paese d’origine (tra le quali viveva anche una nipote: donna Afra, figlia di sua sorella Marta e di Antonio Zerlino, attestata nel collegio tra il 1616 e il 1643). La morte del nostro donatore avvenuta a Brescia il 27 febbraio 1633 consente, se non di fissare la realizzazione del dipinto, che dev’essere anteriore di parecchi anni, quanto meno il momento dopo il quale avvenne il suo trasferimento nel collegio di Quinzano.

Null’altro si può dire, allo stato delle ricerche, sulla destinazione precisa dell’opera, una volta giunta nella casa delle dimesse. Possiamo ipotizzare che venisse collocata nel coro dove le sorelle si radunavano per la preghiera e le devozioni quotidiane, o forse nel piccolo presbiterio dell’oratorio intitolato al Santissimo Sacramento, dominato a partire dal 1643 dalla tela pregevole e sontuosa dell’Ultima cena autografa di Ottavio Amigoni, oggi nella parrocchiale (prima campata a destra), documentata come pala maggiore della chiesa delle Dimesse fino alla soppressione del collegio nel settembre 1811. Dopo di che il quadro dei Diecimila martiri subì la sorte di tutte le altre opere d’arte contenute nelle chiese soppresse, venendo incamerato dal Comune e assegnato in deposito alla parrocchia, che lo espose nel luogo da dove oggi, forse per la prima volta da allora, è stato momentaneamente rimosso per la necessaria manutenzione, e per la nostra scoperta.

Ma sulle dimesse di Quinzano, fondate il 25 novembre 1611 e soppresse dopo duecento anni precisi, ci sono ancora molte cose da dire, e molte inedite: non mancherà occasione di renderle note, in questo lasso di tempo che ci separa dalla duplice secolare ricorrenza.

Tommaso Casanova
(L’Araldo Nuovo di Quinzano, a. 17 n. 185, settembre 2010, pp. 4-6)

Riferimenti documentari e bibliografici

  • Gandino, Giovanni, Alveario cronologico, pp. 276-277 (ms inizio sec. XVIII, presso famiglia Gandaglia, Quinzano); Giardino dei letterati di Quinzano, pp. 217-220 (ms inizio sec. XIX, già presso la famiglia Nember, Quinzano; ora disperso)

  • Carboni, Giovanni Battista, 1760
    Le pitture e sculture di Brescia, Brescia, dalle stampe di Giambattista Bossini, pp. xxiv, 196; rist. anast.: Sala Bolognese, A. Forni, 1977
  • Casanova, Tommaso, 1996 
    “Affreschi di Giovanni Giacomo Pasini da Soresina in San Rocco. Anche Quinzano ha la sua ‘Cappella Sistina’”, L’Araldo Nuovo di Quinzano, a. 4 n. 27, gennaio 1996, pp. 3-4
  • Casanova, Tommaso, 1997
    “Identificato l’autore di tre dipinti del primo ‘700 nelle chiese di S. Rocco e di S. Faustino. Le opere quinzanesi del pittore Ferdinando Cairo”, L’Araldo Nuovo di Quinzano, a. 5 n. 41, aprile 1997, pp. 9-10
  • Faino, Bernardino, 1658
    Coelum sanctae Brixianae Ecclesiae cuius praeclara lumina Catalogis quattuor compendiis pandit B.F. Brixiae, apud Antonium Ricciardum, in 4°