La 'Cappella Sistina' di Giacomo Pasino in S. Rocco

s rocco presbiterio«Chi cerca, trova» suona il vecchio adagio. E c’è forse ragione di dubitare che così possa accadere sempre? tanto più che – se la memoria non mi inganna – doveva essere un parere veramente autorevole. Dunque, che a cercare si trovi qualcosa è fuori di discussione. Però il detto non dice, alla fine, che cosa si trova: e non è questione di poco conto: intendo che io posso cercare disperatamente qualcosa di preciso, e in capo alla ricerca, ritrovarmi in mano tutt’altro da ciò che mi premeva trovare.

Insomma, facciamo un esempio. Mettiamo che io sia appassionato di vecchi organi da chiesa; che a Quinzano in San Rocco ci sia uno degli strumenti – a dire degli esperti – più preziosi e belli della zona; che su di esso non si conosca nulla più che pure illazioni; e che dunque io mi impunti di voler scoprire qualche riferimento chiaro e definitivo. Così, confidando nella saggezza antica dell'antico proverbio, mi imbarco in una indagine, che è un po’ come navigare verso l’America prima ancora di sapere se un’America per l’appunto ci sia. Il risultato, mi chiederete: devo riconoscere che il vecchio adagio funziona davvero, a patto che non ti formalizzi troppo se, invece di trovare documenti sull’organo che ti interessa, riporti alla luce un mazzo alto così di scartoffie d’altro genere su tutto il resto, che non te ne potrebbe importare di meno.

A questo punto i casi sono due: o ti viene una crisi di nervi al pensiero che hai buttato tempo della tua vita alla ricerca di qualcosa che non c’è; oppure ti dici «ma, in fondo, mi importava proprio tanto di un organo privo di documenti (e si sa che, senza documenti, è legittimato perfino il dubbio che si esista sul serio); non era magari che, in realtà, io stavo cercando proprio quello che ho trovato?»

Ecco dunque come si fa a trasformare le scoperte casuali e inopinate nella autentica meta di un lavoro lungamente programmato (a posteriori).

In ogni modo – a parte l’ironia – qualunque ricerca condotta con serietà comporta un considerevole impegno; d’altro canto, qualunque scoperta più o meno fortunata trasmette un entusiasmo che, per essere compiuto, richiede di venire comunicato ad altri, condiviso, per appagare la curiosità di chi è curioso e la conoscenza di chi vuole sapere e capire.

In questo senso non poteva capitare più a proposito il cortese invito recentemente rivolto dalla associazione Quinzano Promuove e dalla redazione dell’Araldo Nuovo al nostro Gruppo Archeologico Fiume Oglio per una collaborazione: piuttosto che intervenire con pareri, idee, riflessioni nostre, preferiremmo comunque lasciare la parola alle carte del passato, convinti come siamo che la storia anche piccola ha molte più cose da dirci, e forse talvolta più acute e sagge, di tante delle parole vuote che saturano il nostro tempo.

Naturalmente vorremmo evitare la solita solfa delle storiografie paesane, consistente nel solito rito di rivangare le solite tiritere che, raccontate per dritto e per rovescio, e se possibile anche per traverso, riempiono le pagine che poi riempiono le discariche. Vogliamo invece partire da documenti nuovissimi, del tutto inediti, quei documenti di cui abbondano gli archivi, e che nessun ricercatore né grande né piccolo si è più dato la briga di sfogliare negli ultimi tre o quattro secoli. Non sarà impresa facile per noi illustrare con sufficiente chiarezza i minuscoli passi della nostra storia lontana, e neppure per il lettore interpretare le vecchie scritture, magari vergate dai suoi propri antenati. Tuttavia, la curiosità di conoscere e la volontà di capire ci garantiscono che – come si dice – il gioco vale la candela. Sono sicuro che i documenti antichi sanno già bene come fare a parlarci: dipende da noi semplicemente il volerli stare a sentire.

Gli affreschi di San Rocco

Ed ora l’imbarazzo della scelta: da dove incominciare?

Partiremo dalla chiesa di San Rocco, perché è per merito del suo bell’organo che la ricerca ha preso avvio, ma anche perché è uno dei luoghi dove più si concentrano l’arte e la storia di Quinzano: potremmo quasi dire che è il principale dei nostri musei, e ad essa appartengono in gran parte i documenti che abbiamo recentemente riesumato.

Sfiliamo dunque dal mazzo così come per caso una carta, ed è già un succulento inedito, mai prima d’oggi menzionato da nessuno scrittore di cose quinzanesi: è il contratto con cui il 7 maggio 1618 i reggenti di San Rocco commissionano gli affreschi del presbiterio della chiesa, dettagliando minuziosamente i temi del ciclo, le disposizioni, le decorazioni, la qualità dei materiali, i tempi di esecuzione, oltre naturalmente ai compensi per l’esecutore e agli obblighi dei committenti.

L’artista non è ignoto a Quinzano, dal momento che esiste di lui almeno un’opera già identificabile con certezza, e proprio in San Rocco, all’ombra di quegli stessi affreschi: si tratta del pittore Giovanni Giacomo Pasino da Soresina, e il quadro noto è il sontuoso Giudizio Universale che fa bella mostra di sé sulla parete a destra dell’altare, sopra la porta della sacrestia. Possiamo anticipare che non è questa l’unica opera attribuibile al Pasino in Quinzano, ma non corriamo troppo: ci saranno altre occasioni per offrire ulteriori ragguagli.

Del Pasino e del suo Giudizio Universale aveva scritto qualcuno anni or sono [Locatelli 1986], per correggere le precedenti incongrue attribuzioni dell’opera e definire alcuni dati biografici dell’autore, allora pressoché sconosciuto. In quell’articolo si riproduceva in maniera imprecisa la firma apposta dall’autore in un riquadro in basso a sinistra del dipinto; in realtà il cartiglio, tuttora ben leggibile, si presenta in questa forma (in corsivo le abbreviazioni esplicitate):

IOannes IACOBVS PASINVS ROSIgnoluS
SOLREGINENSIS PINXIT ANNO
SALutis 1620

È possibile che la -s- scritta in apice al termine della parola «Rosis» possa aver tratto in inganno chi in passato vi aveva letto «Rossi», equivocando sul cognome dell’autore e attribuendo il quadro al pittore bresciano Girolamo Rossi (nato nel 1547, e morto prima del 1614). Il critico, per parte sua, disquisiva vanamente sul significato dello pseudonimo, da lui letto semplicemente «Rosi», ipotizzando un’interpretazione del tipo «il figlio del rosicchiato» (!), che è un palese abbaglio. Del resto, il fatto che nella bibliografia relativa all’artista, brevemente citata nel medesimo articolo, compaia l’appellativo «Pasino l’Usignolo», anche nella variante «Lussignoli», mostrerebbe abbastanza chiaramente che «Rosis» sia nient'altro che l’abbreviazione del vocabolo latinizzato «Rosignolus», ossia appunto «usignolo», con cui il pittore soresinese amava farsi chiamare. Dunque la firma sul quadro in San Rocco significa: «Giovanni Giacomo Pasino l’Usignolo da Soresina dipinse [questo quadro] nell’anno di Salvezza 1620».

Il Pasino (o Pasini, non fa differenza: a quell’epoca si usavano i cognomi nella forma singolare per l'individuo e al plurale per il gruppo familiare), come rivela il citato articolo, era nato a Soresina il 16 gennaio 1589: aveva dunque 29 anni al momento della stipula del contratto per la chiesa di Quinzano, e non era certo alle prime armi, se già nel 1607 si trovava a lavorare presso i signori di Parma, nella bottega del noto pittore cremonese Giovanni Battista Trotti soprannominato il Malosso (1556-1619).

Pochissime opere, oltre a quella quinzanese, vengono attribuite al nostro dall’articolo del 1986: a Soresina affreschi con scene dall’Antico Testamento nel transetto della chiesa di San Siro (1620 circa); la Madonna e san Francesco in estasi nella chiesa di San Francesco del Dosso (1623); poi un san Rocco momentaneamente disperso e una sacra Famiglia conservata da un privato milanese.

Ma ora è il caso di cedere la parola al documento inedito del 1618.

Il contratto coi reggenti

L’atto, rogato dal notaio quinzanese Scipione Gandino, è stilato in casa del nobile Camillo Planerio, cittadino di Brescia residente in Quinzano nel borgo di Mercato, alla presenza dei reggenti di San Rocco, che costituivano quello che oggi chiameremmo il consiglio di amministrazione della chiesa. All’inizio dell’atto si dà l’elenco dei reggenti: Giovanni Battista Ferrari e Orazio Vertua sono i sindici (rappresentanti legali); don Andrea Perone il cappellano; Giovan Pietro Zopetto, Giulio Guadagno e Lelio Gandaglia i consiglieri; Giovan Francesco Vertua il massaro (segretario o tesoriere). Il nobile Planerio non sembra rivestire alcuna carica nella reggenza della chiesa, eppure è l’ospite e il principale tra gli attori del contratto, e appare dunque come il promotore dell’iniziativa.

Questi amministratori della chiesa, tutti borghesi e laici, tranne evidentemente il cappellano, si accordano, dunque, con «Don Giovanni Jacomo Pasini pittor nel luogo de Soresina Diocese di Cremona»: il «don» è puro titolo onorifico, e non allude qui a una improponibile appartenenza religiosa dell’artista, che era sposato con figli [cfr. Locatelli 1986]. L’incarico che gli affidano è la decorazione a fresco del Coro, che noi oggi chiameremmo il presbiterio, ossia la zona della cappella maggiore settentrionale dell’edifi­cio, dalle balaustre fino all’altare, in tutte le sue parti: il soffitto a volta, il cornicione, i «piloni over pilastrali over coloni», che sono le lesene, e il prospetto rivolto verso l’aula della chiesa. Insomma, al pittore si chiedeva di intervenire su tutto il complesso del presbiterio, escludendo soltanto l’altare.

I colti committenti avevano in programma un ciclo pittorico organico, scandito secondo la complessa articolazione dell’abside e del coro: i loro intendimenti sono espressi in dettaglio nei sei capitoli del contratto indirizzati al pittore.

Il primo punto riguarda la volta nel «quadro verso la chiesa», ossia la parte anteriore (tanto per intenderci: la sezione corrispondente allo spazio rettangolare tra i gradini della balaustra e quelli dell’abside, in corrispondenza dei sedili laterali in legno): qui dovrà dipingere l’Incoronazione di Maria Vergine e la Santissima Trinità nella gloria celeste. Quindi nelle lunette sopra il cornicione, che sono tre per lato (le tre centrali, in parte occultate dalla cimasa marmorea dell’altare maggiore, sono nominate più avanti), verranno raffigurati altrettanti «cori di spiriti beati»: il testo del contratto menziona martiri, confessori e vergini, sovrastati ognuno da un angelo collocato nel pennacchio (settore triangolare) che sovrasta ciascuna lunetta.

Non so se suggerire al lettore di fare una visitina alla chiesa, per rendersi conto dello stato in cui versano i dipinti della volta: per parte mia confesso di non essere riuscito bene a identificare le figure, e non solo per ragioni di distanza o di diotrie. In compenso ci viene in soccorso una vivace descrizione, pubblicata dal bollettino La famiglia parrocchiale del dicembre 1938 in occasione del restauro di quegli affreschi, scoperti un anno prima, che allora si dovevano leggere in tutto il loro splendore [cfr. Fappani-Locatelli 1986].

Il cronista annota che le figure della prima lunetta di sinistra sono le più rovinate, ma si intuisce che si tratta di patriarchi biblici; seguono, nella lunetta successiva, Mosè e i profeti Geremia, Davide e probabilmente Isaia e Daniele; gli apostoli sono i protagonisti della terza lunetta, dove si riconoscono Pietro, Paolo e Andrea in primo piano; sulla destra, la lunetta verso l’altare maggiore raffigura i martiri, tra cui chi scrive crede di individuare i santi Firmo e Rustico; seguono i confessori, impersonati da san Rocco, titolare della chiesa, dai santi Domenico e Francesco e san Carlo Borromeo; l’ultima delle lunette celebra, infine, le sante vergini e martiri Barbara, Lucia e Caterina d’Alessandria. Il contratto non lo rileva, ma nei pennacchi tra le unghie triangolari con gli angeli il decoratore dipinse eleganti cariatidi.

Il numero successivo del capitolato riguarda «le ponte del volto che vanno sopra l’altare», con cui si intendono le tre unghie centrali e le relative lunette sovrastanti l’altare maggiore, dove l’artista dovrà raffigurare cori d’angeli con vari strumenti musicali e decorazioni secondo il gusto fastoso e teatrale dell’epoca: è questa la parte manifestamente ridotta oggi in peggior condizione.

Il quarto e il quinto articolo del capitolato definiscono rispettivamente le decorazioni delle pareti laterali del coro e «la fazzata del arcone cum l·arcone», cioè l’intradosso, la parte interna dell’arco, che sovrasta la balaustra d’ingresso, con il cornicione, il fregio sottostante e le varie lesene in stile ionico.

La «fazada del coro», infine, che tecnicamente si chiama estradosso, sopra il cornicione dalla parte della chiesa, ospiterà la rappresentazione dell’Annunciazione, mentre le pareti frontali dal cornicione fino a terra riprenderanno le decorazioni «secundo l’ordine del’altri», cioè nel medesimo stile.

Il compenso concordato tra le parti per l’opera intera è di 270 lire planet, come si chiamava la moneta bresciana allora in corso (nel testo si dà anche la corrispondenza in 66 scudi di 82 soldi, e si parla di ducatoni, che sono altri tagli di moneta). I reggenti della chiesa si impegnano a versarle in tre rate equivalenti: la prima all’inizio dei lavori (con un anticipo alla firma del contratto), la seconda a San Rocco il 16 agosto, e la terza a San Martino l’11 novembre, purché naturalmente l’opera sia conclusa. Per parte loro i responsabili forniranno gratuitamente i ponteggi secondo le indicazioni del pittore, la calce per l’intonaco e un manovale che collabori con l’artista; gli predisporranno infine una camera ammobiliata e il vitto per tutto il tempo che dovrà soggiornare a Quinzano per il suo lavoro.

L’ultima parte del documento è infarcita del formulario burocratico caratteristico degli atti notarili, infiorettato di vocaboli latini campati per aria e di pedantissimi «etcetera». A conclusione i nomi dei quattro testimoni, di cui l’ultimo, Giovanni Giacomo del defunto Andrea Manente (†1646), conoscente del pittore e forse tramite per il suo ingaggio, era un abile intagliatore in legno, autore di parecchi lavori nelle chiese quinzanesi, come appare in diversi altri documenti.

Il contratto è trascritto per intero così come si presenta nel manoscritto: ci rendiamo conto che alla prima lettura le difficoltà potranno apparire notevoli, specialmente per quanto concerne le -v- scritte come -u-, la mancanza di accenti e di punteggiature, o le irregolarità di ortografia; tuttavia siamo convinti che, con un po’ di buona volontà, il lettore prenderà gradualmente confidenza con questo modo di esprimersi, e a quel punto potrà gustare pienamente il fascino di quel mondo di ieri, che riesce a comunicare con noi proprio attraverso tali documenti, e solo grazie ad essi.

Ho detto che le antiche scartoffie talvolta ci insegnano qualcosa di fortemente attuale. Un paio di rapidissimi spunti per concludere: un gruppo di cittadini quinzanesi, nel secondo decennio del XVII secolo, si occupava di gestire una delle chiese del paese con preciso sentimento della collettività presente e con lo sguardo rivolto al futuro, alle generazioni successive, dunque anche a noi; in quel medesimo periodo, funestato da guerre e pestilenze, quella generazione lasciò opere singolari, ricche di investimenti economici, ma soprattutto di devozione e cultura, cioè di civiltà, come vedremo man mano che verranno pubblicati gli inediti recentemente riscoperti.

E noi? Proviamo a visitare oggi la chiesa di San Rocco: vedremo il segno che lasciamo noi del nostro passaggio, e lo lasciamo proprio là dove i nostri maggiori hanno profuso l’energia migliore di cui erano capaci: immagino che, se avessero saputo a chi affidavano il loro messaggio di civiltà probabilmente non ne avrebbero fatto nulla.

Tommaso Casanova
(L’Araldo Nuovo di Quinzano, a. IV n. 27, gennaio 1996, pp. 3-4)

Riferimenti documentari e bibliografici

  • 1618 maggio 07 - Contratto per gli affreschi di Gian Giacomo Pasino in S. Rocco

  • [Locatelli, Angelo], 1986
    “Quinzano: La firma ritrovata”, La Pieve, anno XV n° 10, novembre 1986, pp. 15-16 (ripreso dal Giornale della Bassa, anno 1 n° 2, ottobre 1986)
  • Fappani, Antonio - Locatelli, Angelo, 1986
    Quinzano d’Oglio: novecento, Quinzano d’Oglio, Marino e Antonio Marini, pp. 153-156 (in particolare pp. 154-156 nota 115)