Il primo quinzanese della storia?

Chi si occupa di storia di paese, cercando di andare sempre più indietro nel tempo attraverso i documenti, a un certo punto si scontra con l'inevitabile domanda: quando si trova per la prima volta il nome di quel luogo?

Eppure, retrocedendo sempre più nel passato, ovviamente, è inevitabile che i documenti si facciano sempre più rari, diminuendo in proporzione geometrica man mano che ci si inoltra nelle oscurità della storia. E allora non è difficile immaginare il fastidioso senso di impotente frustrazione che si prova quando, dopo lunghe ricerche magari di anni, si continua ostinatamente a scontrarsi contro il silenzio pressoché ermetico delle fonti.

Questo forse può spiegare, almeno sul piano emotivo, la propensione di qualche erudito locale, che per orgoglio strapaesano, o per rimuovere il frustrante senso di impotenza, o anche solo per una sorta di orrore del vuoto, tenta più o meno consapevolmente di riempire di sensi quelle poche parole che appaiono così desolatamente vuote nelle loro antichissime carte.

Il meccanismo psicologico più o meno funziona così: trovi un raro documento in cui compare il nome del paese X; fai mente locale sul tipo di documento, mettiamo la lunga lista di proprietà del monastero Y; e in men che non si dica ti viene spontanea l'equazione, espressa di solito nella vuota formula "a X c'erano vastissimi possedimenti del monastero Y", anche quando (come quasi sempre) si tratta solo della pura e semplice trascrizione del toponimo, da cui si può ricavare al massimo l'esistenza di una correlazione, senza che si possa in alcun modo quantificarne la vastità o la portata.

Riguardo a Quinzano, ad esempio, la esclusiva presenza del toponimo, senza nessun'altra determinazione di alcun tipo, prima dell'anno Mille ricorre – per quel che ne so – non più di cinque volte: in particolare, in tre liste delle proprietà del monastero di Leno elencate da diplomi imperiali (Berengario II e Adalberto, 13 gennaio 958; Ottone I, 2 aprile 962; Ottone II, 18 gennaio 981), alle quali mi è già capitato di dedicare qualche riflessione critica (Casanova 2008), e in una presunta infeudazione di Ottone III a Tebaldo Martinengo del 6 ottobre 969, che è certamente una falsificazione (ci sarà occasione di ritornare sull'argomento).

Ma l'applicazione più paradossale del perverso automatismo di cui sopra si verifica col più antico documento in assoluto in cui compaia il puro nome di "Quinzano": una donazione confermata il 4 ottobre 760 dagli ultimi re longobardi Desiderio e Adelchi e dalla regina Ansa al monastero cittadino di San Salvatore (che poi sarà di Santa Giulia), su cui voglio soffermarmi un attimo.

Il monastero femminile di San Salvatore era stato fondato da Desiderio duca di Brescia (poi re dei Longobardi dal marzo 757) e dalla moglie Ansa nel 753 e la sua basilica consacrata nel 763 dal papa Paolo I; esso fu dotato dalla famiglia ducale e poi reale di una cospicua serie di beni terrieri di varia collocazione geografica allo scopo della sua edificazione e del necessario sostentamento. Il diploma del 760 costituiva una conferma di parte di queste donazioni: in dettaglio, oltre agli edifici che sorgevano nei dintorni del monastero, agli arredi e paramenti per le liturgie, dieci case massaricie e 400 iugeri di terra presso l'Oglio in località Pisserisse (318,5 ettari, a Piscilesso di Calvatone) con tutta la regona del fiume; il casale Secunciolum presso Pollicinum de Pado con 300 iugeri (circa 239 ettari, a Polesine Parmense); terre nell'isola detta Ciconiaria (Cicognara di Viadana); otto case nel casale Ermenfrit in territorio bresciano, con tutti i liberi e i servi residenti; una selva di 150 iugeri a Gussunago in finibus Sermionensi (119,5 ettari, a S. Martino Gusnago di Ceresara, all'epoca amministrativamente dipendente da Sirmione).

Ma il passo chiave del documento, per la nostra argomentazione, lo riporto alla lettera:

Et cedimus in suprascripto monasterium terra iuies quinquaginta de Brada, curte ducales, que est prope fluvio Mella, loco qui dicitur Runca, quod est Runco Novo, et de silva que secum ipsa terra insimul tenet, cedimus ibi iuies alias quinquaginta ac damus ibi Gisolum et Radolum de Cuntingiaca, qui porcos ipsius monasterii pascere debeant, cum rebus et familiis suis; et cedimus ibi Deosdedolum de Letrino, qui sit pecorarius; et donamus inibi Ansteum de Quintiano, qui vacas ipsius monasterii pascat, cum casa et familia sua.

Che tradotto significa:

[Noi, Desiderio, Adelchi e Ansa] cediamo al monastero [di San Salvatore di Brescia] 50 iugeri (circa 40 ettari) di terra di brada, dalla corte ducale, che si trova presso il fiume Mella nel luogo che si chiama Runca, ovvero Runco Novo, e del bosco che a quella terra appartiene; cediamo in quel luogo altri 50 iugeri e doniamo Ghisolo e Radolo di Contegnaga, per pascere i porci del  monastero, con le loro cose e le famiglie; e cediamo Deusdedolo di Lodrino, per fare il pecoraio; e doniamo in quel medesimo luogo Ansteo di Quinzano, per pascere le vacche del monastero, con la sua casa e la famiglia.

Brada o braida (in sèguito più diffuso nella forma breda) nel gergo longobardo indicava un terreno fertile coltivato a prato; runca (poi anche ronco), derivato dal verbo runcare che significare disboscare con la runca (roncola), indicava i terreni di recente disboscati: non a caso quello in questione si definisce anche Runco novo. Gli specialisti di storia longobarda identificano questi 40 ettari di breda da poco roncata, aggiunti ad altri 40 di bosco confinante non ancora bonificato, nel territorio attuale di Roncadelle.

Poi, come si usava all'epoca, insieme al terreno vengono offerti quattro uomini che vi lavoravano come allevatori: Ghisolo e Radolo di Contegnaga (località a sud-ovest di Flero), allevatori di porci; Deusdedolo di Lodrino (Valtrompia), pecoraio; e infine Ansteo di Quinzano, allevatore di bovini. È chiaro che non si tratta di uomini liberi, visto che vengono donati insieme alla breda, al bosco, nonché alle loro abitazioni, cose e famiglie; ma è altrettanto evidente che non erano semplici schiavi di infima categoria, dal momento che sono menzionati coi loro rispettivi nomi e luoghi di provenienza: erano dunque i sovrintendenti agli allevamenti dapprima dei sovrani longobardi, poi delle monache, a sèguito della donazione.

Da qui a ricavare, come pure è stato fatto da più di un erudito locale, dal toponimo "de Quintiano" l'esistenza di "ampi possedimenti" prima del demanio regio e poi del monastero di San Salvatore nel territorio del paese è un bell'eccesso di immaginazione. E se si dà il caso che appunto nei dintorni di Flero saranno attestati in sèguito possessi del monastero di Santa Giulia, da cui si potrebbe trarre la supposizione che i porcari di Contegnaga appartenessero in origine ai famigli residenti in quella zona, sarebbe comprensibile dedurre che anche il pecoraio di Lodrino e il bovaro di Quinzano potevano provenire da gruppi residenti in dipendenze dei due centri nominati; salvo però che allo stato delle conoscenze nei non pochi documenti superstiti del monastero cittadino non compare mai in nessuna epoca l'attestazione positiva di suoi possedimenti in Quinzano. È pur vero che dalla assenza di documenti non si dimostra che non ci fossero delle proprietà monastiche; ma di sicuro è difficile anche desumerne con certezza che ce ne siano state.

Dunque, di questo Ansteo possiamo dire che era originario di Quinzano (e questa è la prova, se non altro, che una località di quel nome all'epoca già esisteva), che era un servo legato con la sua famiglia alle proprietà terriere della breda roncata e della selva di Roncadelle, e che era il sovrintendente delle vacche che pascolavano su quella proprietà, passta di recente dalla corona (o dalla famiglia del re Desiderio) al monastero reale.

C'è da dire che un documento di poco più di sei mesi dopo (17 aprile 761) ci dà qualche ulteriore conferma in proposito. Il protagonista di esso, Maurenzio figlio del defunto Ansteo (che quindi nel frattempo era morto), detto Bovorculo (bovaro: lo stesso mestiere del padre), abitava a Brescia, entro le mura della città presso la porta Mediolanensis (porta Milanese) in località Parevaret, con la suocera Masaria. Maurenzio nel documento stipulava un contratto con la badessa Anselperga di San Salvatore per assicurare il passaggio di acqua per il monastero entro la sua proprietà: appare quindi come un uomo libero, abitante in città, in grado di trattare di persona con la superiora dell'istituzione religiosa.

tc (luglio 2022)

Riferimenti documentari e bibliografici