Un artista intagliatore in legno: Ottavio Bergamaschi

bergamaschi ottavio 1Lo zio Ottavio (Robecco d'Oglio, 26 agosto 1872 - Quinzano d'Oglio, 5 maggio 1961), nei miei ricordi di bambina, è stata una figura molto importante e significativa. Aveva un carattere semplice, sereno ed arguto; raccontava spesso barzellette, magari sempre le stesse, quando le circostanze gliene davano l'appiglio, e dava talvolta agli avvenimenti un'interpretazione spiritosa e sorniona, di un umorismo sottile e profondo, di stampo manzoniano. E dei Promessi Sposi, infatti, da un suo vecchio libro (una delle prime edizioni), leggeva quotidianamente qualche pagina, gustandola e vivendola poi con convinzione nella sua vita d'ogni giorno.

Non aveva grandi responsabilità in famiglia, perchè all'andamento economico pensavano la zia e il papà (la mamma era morta). Aveva frequentato da giovane una scuola di disegno e di intaglio e doratura su legno, e si era dedicato con gioia e con passione a questo suo lavoro di artigiano, conseguendo una notevole perfezione artistica, che lo faceva apprezzare da tutti, specialmente dai sacerdoti di Quinzano e di varie altre parrocchie delle diocesi di Brescia e di Cremona, che gli commissionavano molti lavori piccoli e grandi, umili e importanti per la bellezza e il decoro delle loro chiese.

Ricordo il “triduo" di Quinzano: un catafalco immenso che riempiva tutto lo spazio ai lati e sopra l'altar maggiore della nostra parrocchiale, corredato di scale e scalette nascoste per salire ad accendere tutte le candele, che erano quasi quattrocento, col trono centrale per l'esposizione dell'ostensorio e tutti gli angioletti e i fiori, i riccioli e le foglie d'acanto scolpiti nel legno e dorati in lucido e opaco. Era un tale capolavoro che io mi fermavo a volte a guardarlo a bocca aperta, e mi sembrava un paradiso.

Ma è rimasta pure impressa l'antica soasa della Madonna della Pieve, costruita da lui in legno dorato, e la vecchia portantina della Madonna del Rosario (chissà dove sono finite!). E ancora il "faldistorio" per le visite del vescovo, il tronetto per l'esposizione del Santissimo, il “paradisino" che usiamo ancora per il sepolcro il Giovedì Santo, la poltroncina per far sedere Gesù Bambino il giorno dell'Epifania, a ricevere l'omaggio dei bambini, e molte, moltissime cornici, camere da letto, armadi, tavoli, librerie, divani, tutti con l'impronta della sua caratteristica scultura in noce massiccio naturale, dorato o argentato.

Fin da bambina piccolissima io lo seguivo con interesse; più grande, lo aiutavo in certi passaggi del suo lavoro: azionava il pedale del tornio con cui scolpiva i piedi dei tavoli o delle sedie; stendeva due o tre mani di gesso sui lavori scolpiti; tirava il gesso asciugato con raschietti arrotondati o appuntiti per lisciarlo e dargli una forma perfetta; lo ricopriva con pennellate di "bolo armeno", che era una specie di mordente, su cui stendeva poi, pezzettino per pezzettino, sottilissimi foglietti di oro puro, che tagliava prima con un coltellino su un cuscino ricoperto di pelle. Ma allora bisognava stare attenti a non respirare, perché bastava un soffio leggerissimo a far volar via l'oro per tutta la casa. Quando poi l'oro era asciugato, lo aiutavo a lucidarlo nelle parti esterne e tondeggianti con una piccola pietra dura: il calcedonio, che lo rendeva lucido come uno specchio, mentre negli interni doveva rimanere opaco. Il risultato era favoloso e stupefacente, e tutti quelli che venivano a vederlo restavano a bocca aperta.

Ma la fase del lavoro che mi entusiasmava di più era il primo abbozzo, e qui io non potevo aiutarlo. Rimanevo ore ed ore incantata a guardare quel blocco di noce a forma di parallelepipedo, assicurato al banco da due morse, su cui aveva tracciato con la matita un disegno, e quello scalpello e quel martello che si muovevano alacri da destra a sinistra e da sinistra a destra. Il disegno era subito scomparso man mano che i trucioli saltavano in tutte le direzioni, ma il progetto iniziale pian piano prendeva forma e sbocciavano tra quelle mani rose, margherite, foglie d'acanto, riccioli e volute di una grazia indicibile, angioletti e putti che pareva prendessero il volo e bocche di leone spalancate che sembrava stessero per ingoiarti in un boccone.

Il più delle volte osservavo muta e non riuscivo a capire come da un rustico pezzo di legno potessero uscire tutte quelle meraviglie; ma non c'era domanda e non c'era risposta a questo interrogativo. Azzardavo a volte qualche timida domanda; «Zio, ma questo fiore a destra non è uguale a quello che c'è a sinistra!» «L'è 'l sò bel - mi rispondeva, - se fossero identici, sembrerebbero fatti a macchina; invece così si vede che son fatti a mano». E di nuovo ammutolivo per lo stupore e l'ammirazione.

Questa sua grande passione artistica si espriměva in una operatività calma e serena, consapevole della piena realizzazione della sua personalità con tutte le doti e le capacità che l'accompagnavano. Ma vi erano dei periodi in cui questa serenità si incrinava e dava adito ad una tensione nervosa nor abituale: ed era quando, giunto verso la fine di un lavoro, temeva di non terminarlo per il giorno stabilito, e gli interessati lo sollecitavano e gli facevano fretta. Allora perdeva la calma, e con la calma perdeva anche la concentrazione e l'ispirazione artistica. Cercavo allora di aiutarlo di più in quelle cose in cui potevo metter mano, per portare avanti il lavoro e fare in modo che non si scoraggiasse e non si perdesse d'animo, compromettendo anche la riuscita stessa del lavoro. Quando poi era il momento di farsi pagare, la somma richiesta era sempre infinitamente al di sotto del valore dell'opera, perché, non maneggiando mai denaro per le necessità della vita (trovava sempre tutto pronto in famiglia), era rimasto agganciato al valore del denaro dell'anteguerra, sicchè poteva capitare che chiedesse magari cinquecento lire per un lavoro per cui aveva lavorato più d'un mese.

Non voleva mai portare addosso nè denaro nè portafoglio. Capitò una volta che si andasse con tutta la famiglia in pellegrinaggio parrocchiale a Torino con due pullman di passeggeri. Ci fermammo a sentir messa alla chiesa di Maria Ausiliatrice e, dopo la messa, lo zio si incantò a contemplare da esperto i lavori in legno presenti nel coro e nella navata: sapeva sempre stupirsi per i lavori degli altri, lui che non si stupiva mai dei propri capolavori.

Tornammo poi sul pullman, diretti a Superga, e vedendo che lo zio non era con noi, pensammo che fosse sull'altro pullman. Ma, giunti a Superga e ritrovatici insieme, constatammo che proprio non c'era. Preoccupati, ci demmo da fare per tornare a cercarlo nella chiesa dove l'avevamo lasciato, ma là non c'era più. Tornammo dunque a Superga e pensavamo a come potevamo fare per ritrovarla, quando lo vedemmo capitare a piedi sull'ultimo tratto di salita, arzillo e sorridente e fresco come una rosa, nonostante avesse già quasi ottant'anni. «Ma zio, sei venuto a piedi! Perché non hai preso la cremagliera?» «Perchè non avevo neanche un soldo in tasca. Chiedevo la strada alla gente, e tutti mi indicavano la cremagliera, ma io rispondevo: no, no, grazie, vado a piedi».

Nella sua semplicità evangelica, aveva anche una grande attenzione agli altri ed era sempre pronto ad aiutare chi avesse bisogno, o anche solo a sostenere con la sua solidarietà chi dovesse affrontare qualcosa di impegnativo. 

lo me lo ricordo sempre vicino e sollecito in tutti i momenti importanti della vita. Studiavo alle magistrali a Verolanuova e percorrevo il tragitto in bicicletta (non c'erano allora le corrie.e). Quando nevicava e la neve era alta una spanna, non si poteva andare in bicicletta. Lui era pronto il mattino presto e mi precedeva, portandomi la cartella e facendo i buchi con gli scarponi perché io vi potessi infilare gli stivali.

Avevo una nomina nella scuola elementare in Valcamonica? Mi accompagnava col treno fino a Breno, e poi su per la mulattiera (due ore di salita) camminando a piedi davanti a me con la mia valigia in mano. lo, senza valigia e molto più giovane di lui, ansimavo e faticavo a tenergli dietro, e lui ogni tanto si voltava e mi faceva coraggio.

Che stupende passeggiate in bicicletta con lui, che non era mai stanco! Percorrevamo insieme la Valsabbia, il lago d'Idro, il lago di Ledro, e poi scendevamo a Riva e tornavamo per la Gardesana. A volte invece facevamo in un giorno solo tutto il giro del lago di Garda, o visitavamo insieme altre località amene dei dintorni, con una particolare preferenza per i paesaggi di collina e di montagna, dove potevamo contemplare a nostro agio l'incanto delle vette immacolate, limpide nel cielo azzurro (non era ancora di moda allora lo smog e l'inquinamento atmosferico), le cascate spumeggianti, le forre strapiombanti al fondo delle quali scorreva impetuoso il torrente, e dove, ad una svolta improvvisa, ci si presentava magari inaspettatamente davanti una delicata statua della Madonna. Continuavamo la salita, pedalando con forza ed arrivando sudati al valico prestabilito e mentre ci sedevamo sull'erba per riposare e riprendere le forze, ci accorgevamo che Gesù ci guardava dall'alto di una croce posta sulla cima della montagna. In quella meditativa e silenziosa contemplazione, sorgeva spontanea dal cuore la preghiera, come atto d'amore e di riconoscenza verso il Creatore di tante meraviglie. verso l'autore della vita, che davvero ci appariva come un bene immenso e prezioso, come un dono da donare gratuitamente nel servizio e nell'attenzione ai fratelli. Tutte queste cose lo zio le sentiva dentro, ma non le sapeva esprimere, forse per quel pudore istintivo che gli impediva spesso di esternare i suoi sentimenti più intimi. Tuttavia le viveva di fatto nella coerenza della vita e nella sua costante, inalterabile serenità.

Emersero però evidentissime alla fine della sua vita, quando, quasi novantenne, colpito da paralisi progressiva, rimase nove giorni disteso sul divano del salotto,conservando quasi sempre la sua lucidità mentale. Muoveva spesso le labbra mormorando preghiere incomprensibili; e quando venne il parroco per dargli i sacramenti e gli propose l'Estrema Unzione, perché non è quella a far morire, anzi a volte si può ancora guarire dopo averla ricevuta, egli rispose nel nativo dialetto cremonese: «Ghé sto amò volentera a sté mund, se 1 Signur el me lasa!»

Poi il parroco soggiunse: «E se invece il Signore chiamerà in Paradiso...» Egli ebbe un attimo di smarrimento (forse non si era ancora reso conto della gravità della malattia). e poi rispose serenamente: «So pronto!» Poco dopo mi avvicinai al suo letto col mio bambino di cinque mesi in braccio perché lo accarezzasse. Lo zio gli prese la manina, gliela scosse dolcemente stringendola con amore, e disse le sue ultime parole: «Chi nasce e chi muore». Era il 5 maggio 1961.

Gesuina Bergamaschi
(La Pieve, a. XV n. 5, maggio 1986, pp. 16-17)