Alcuni organisti di Quinzano nel ‘600

s rocco organo 33L’ultima volta (Casanova 1998.06) abbiamo introdotto il discorso sull’organista municipale, e abbiamo fatto conoscenza con Domenico Spinoni, un musico che al suo tempo non doveva essere uno sprovveduto e che, dopo l’esperienza quinzanese, riprese il volo – possiamo pensare – per la sua brillante carriera. E prima di lui avevamo incontrato, qualche tempo fa (Casanova 1996.06), sempre alla tastiera del nostro vecchio organo parrocchiale, un’altra personalità non secondaria nel panorama musicale bresciano del ‘600: Orazio Pollaroli, anche lui destinato a sorti migliori.

Già che siamo in argomento, e che ci abbiamo preso gusto, potremmo dedicare un po’ di spazio a qualcuno degli altri organisti quinzanesi della prima età barocca: giusto perché non se n’abbiano a male di essere trascurati davanti ai loro più celebri colleghi.

Musica e liturgia

Lo Spinoni, secondo gli scarsi documenti, pur di famiglia bresciana, veniva da Sarzana, e servì a Quinzano per tre anni o poco più, prima di prendere il largo per altri lidi. Ma qui da noi il servizio musicale doveva continuare, e continuò, con la metodicità e l’avvicendamento che l’avevano probabilmente caratterizzato anche nei decenni precedenti.

Del resto, era nella natura del posto di organista municipale: il suo servizio era indispensabile nell’ambito di una liturgia che escludeva qualunque intervento dell’assemblea dei fedeli, concentrando tutta l’attenzione sul clero. Gli stessi interventi del popolo erano demandati ai ministranti (chierichetti), e il canto piano (il cosiddetto gregoriano) e figurato (quello polifonico, per intenderci) erano competenza di professionisti, semi-professionisti, o dilettanti di vario livello, come rivelano anche le fonti quinzanesi. Il canto, sia piano che figurato, era sostenuto nelle funzioni solenni dalla musica dell’organo, e gli spazi liberi dal canto e dalla lettura liturgica, come l’inizio o la fine del rito, l’offertorio, l’elevazione, la comunione, le processioni dentro il tempio, erano essi pure amplificati dalle improvvisazioni strumentali dell’organista.

Il ruolo del musico, dunque, era necessario e delicato: ci voleva qualcuno che potesse dedicarvisi a tempo pieno e con qualità di esecuzione e soprattutto di improvvisazione non comuni. Ecco perché ogni chiesa di un certo rilievo, che avesse numerose funzioni fastose e frequentate, non poteva rinunciare ad assumere un organista professionista, che del resto era investito anche di un ruolo – diciamo così – propagandistico, contribuendo all’immagine pubblica della chiesa stessa, come una pala d’altare di un pittore di grido, o una reliquia particolarmente miracolosa e venerata.

L’organista medesimo, poi, fondava la sua carriera sulle referenze che gli venivano dalle chiese dove aveva servito, e naturalmente sulla paga che ne riceveva, a seconda della ricchezza e della posizione più o meno marginale della sede ecclesiastica. Per la maggior parte gli organisti del tempo iniziavano men che ventenni nelle chiese di paese, per passare poi alle basiliche dei grossi borghi e, al culmine della carriera, nelle grandi cattedrali o nelle cappelle di corte, là dove esistevano corti dotate di un proprio importante luogo di culto (come Venezia, Parma, o Mantova, tanto per rimanere nei nostri paraggi).

Professionisti e dilettanti

Quinzano nel ‘600 non era una sede disprezzabile, ma nemmeno un luogo centrale, non solo rispetto a Brescia o Cremona, ma anche rispetto a centri vicini come Verola Alghisi, la cui chiesa principale era, in un certo senso, il tempio di famiglia dei feudatari locali, i Gambara, e come tale pare avesse fin dal ‘500 una cappella musicale con un certo numero di cantori e maestri dipendenti (ma ciò al momento non è del tutto provato). A Quinzano un organista forestiero poteva venire all’esordio della sua carriera, e con un occhio sempre vigile fuori dai confini del modesto Comune, pronto a cogliere occasioni più gratificanti: l’abbiamo visto ad esempio per il Pollaroli.

Un discorso un po’ diverso è quello dei musici non professionisti, tra i quali peraltro si distinguevano esecutori di notevoli qualità, anche perché a quel tempo non esisteva un vero repertorio in senso moderno (la storia della musica moderna era ancora quasi tutta da scrivere), e i confronti erano assai difficili per chi, come la maggioranza dei fedeli che frequentavano le funzioni, non aveva molte occasioni nella vita di sentire altri esecutori che quelli attivi nel proprio paese.

Un organista dilettante – qualcuno ricorderà – l’avevamo incontrato una volta (Casanova 1996.04): il notaio Giovanni Francesco Gandino (1606-1652), padre del cronista che ci ha lasciato il famoso manoscritto (di proprietà della famiglia Gandaglia) da noi qui puntualmente saccheggiato. Costui fu, a detta del figlio, discreto organista civico, oltre che fedele segretario comunale in sostituzione del padre Scipione, e a lui si dovette l’inagurazione dei nuovi organi di San Faustino e di San Rocco. Così scriveva di lui il figlio Giovanni (Alveario, p. 452):

Premendo poi alla Comunità di questa Patria d’havere sogetto che fedelmente sostenesse lo grado della Cancelaria, et al genitore [=il padre Scipione] l’economia della Casa, fù chiamato sostenere le sue veci, che sin che visse impuntabilmente ne adempi le parti, impartendo alla medema [=la comunità, ossia il Comune] et a queste Chiese il suo serviggio di sonarli li organi et a questa Dottrina Cristiana di Canceliero. Fù egli quello che insiunuò [=insinuò, suggerì] al Publico di fare alla Chiesa Parochiale l’organo presente, mentre per avanti ve n’era un altro portatile nel coro di niuna veduta e di pochi Registri; al quale esempio anco la Chiesa di San Rocco ne fabricò un altro di vaga veduta, stati ambidue da lui prima d’ogn’altri sonati.

Lo strumento realizzato per la parrocchiale di San Faustino dall’organaro Ercole Valvassore fu compiuto nel novembre 1650 (cfr. Casanova 1986), per cui alla fine di quell’anno dovrà ascriversi la sua inaugurazione; dell’organo di San Rocco possiamo solo supporre che sia stato posto in opera dopo il febbraio 1651 (Casanova 1996.05), e poiché Gian Francesco Gandino morì a 46 anni il 5 febbraio 1652, l’inaugurazione dello strumento va collocata tra quelle due date.

Quanto alla attività di esecutore che il nostro notaio avrebbe esercitato per alcuni anni, dobbiamo ritenere che fosse volontaria e gratuita, proprio perché il Gandino – come si è visto – era già dipendente del Comune in qualità di cancelliere (segretario). In effetti, negli atti municipali (almeno per quel che abbiamo potuto constatare) c’è un lungo silenzio relativo agli organisti tra la fine del 1641 e il principio del 1653: con un po’ di elasticità, potremmo collocare proprio nel decennio 1642-1651 il servizio volontario di Gian Francesco alle tastiere degli organi municipali.

Gli organisti semi-professionali

Oltre alle due categorie degli organisti professionali e degli abili dilettanti, esisteva all’epoca anche una categoria intermedia, che potremmo definire di organisti semi-professionali. Si tratta per lo più di sacerdoti del paese, o di paesi vicini, che godono qualche piccolo beneficio o cappellania della parrocchia, e arrotondano i propri introiti con il servizio musicale e organistico, che hanno appreso probabilmente durante i loro studi nel seminario cittadino o presso qualche congregazione religiosa.

Abbiamo esempi di sacerdoti quinzanesi che svolsero mansioni simili in altre parrocchie: don Andrea Pizzamiglio, cappellano e organista a Verolavecchia dal 1647; don Giovanni Battista Bergamaschi detto Sandrini (1633-1713), organista a Gussago; per arrivare al decano dei musici quinzanesi, il domenicano fra Giacinto Bondioli (1572-1637), organista a Venezia e a Brescia (un giorno scriveremo anche di loro). 

In questo punto ci interessano però i chierici forestieri o locali che prestarono il loro servizio di esecutori presso gli organi delle chiese di Quinzano.

All’organista prete don Andrea Grosso (o Grossi) in un libro di cassa dell’archivio comunale (b. 16) sono intestati cinque mandati di pagamento, fra il 31 dicembre 1660 e il 15 luglio 1661. Le somme sono varie e le scadenze irregolari, per cui non è possibile ricavarne un’idea precisa dell’entità del suo salario e delle modalità con cui gli veniva attribuito. Esiste però una provvisione municipale del 15 maggio 1661 (b. 12, c. 382v), che riporta a suo riguardo una delibera interessante:

É proposto in questo Conseglio che il molto Reverendo signor Don Andrea Grosso Orghenista di questa Comunitá è ricercato con maggior recognitione di quello gli vien datta da questa Comunitá, et per che convien mantenerne uno o esso Reverendo Don Andrea o altro et perché é rifferto che il sudetto Reverendo si rimette alla cortesia che gli venirá assegnato di piú del solito oltra il mese di [?] a lui offerto dalli regenti, perció va parte chi vole gli sia aggionto scudi cinque all’anno metti il voto in bianca et chi no nella negra, la parte hà ottenuto con balle affirmative numero 27 negative 4.

La paga stabilita inizialmente dal Comune era dunque troppo scarsa, e il dipendente richiedeva un aumento (maggior recognitione), rimettendosi alla cortesia dei superiori. Il consiglio speciale (giunta) rifletteva che un organista occorreva pure mantenerlo, fosse il Grossi o qualcun altro; e (questo non è detto, ma sembra di intuirlo tra le pieghe del discorso) un altro non si sarebbe magari appagato della cortesia dei superiori o poco più, come affermava il Grossi. In conclusione, si vota a maggioranza l’aumento annuo di 5 scudi.

La carriera di Andrea Grossi

Forse il Grossi, nonostante la manifesta condiscendenza, non ne fu particolarmente gratificato, visto che pochi mesi dopo viene pagato per l’ultima volta. Il 4 novembre dello stesso 1661 compare invece un pagamento a nome del «signor Horatio Polaroli orghenista», che era stato assunto poco prima e che presterà la sua opera a Quinzano almeno fino al gennaio 1666.

Di don Andrea Grossi scrisse alcune righe il nostro cronista Giovanni Gandino (p. 227), giusto per dire che era oriundo di Seniga, da dove proveniva la sua famiglia. Prima di essere sacerdote secolare sembra che fosse stato eremitano agostiniano, ed esercitò la professione organistica anche in chiese della riviera di Salò, dopo di che si stabilì definitivamente a Quinzano.

Il Gandino lo definisce «ottimo organista», e non abbiamo ragione di dubitarne; quanto però alla sua condotta organistica quinzanese sostiene che suonò «ultimamente in questa Patria per molti anni l’organo con sodisfazione di questa e quiete del lui animo». Ora (sempre che l’espressione non sia un’iperbole laudativa), se dobbiamo giudicare dagli atti del Comune, difficilmente riusciamo a persuaderci di quei «molti anni», visto che, tirando il più possibile, si arriverebbe al massimo a un paio, tra 1660 e 1661: prima di quella data l’organista titolare sembra fosse un altro, e dopo d’allora la sequela delle condotte appare abbastanza regolare fin quasi all’800.

C’è da riconoscere, però, che le lacune sono frequenti e piuttosto estese, come s’è visto a proposito di Gian Francesco Gandino; e il silenzio su un fatto non è mai prova che esso non sia accaduto: dunque potrebbe essere che il suo servizio professionale il nostro organista Grossi l’abbia espletato più continuativamente in altri periodi, proprio là dove purtroppo mancano le documentazioni, magari all’inizio del secolo; forse nel 1660 egli era già molto anziano, e del resto il cronista Giovanni Gandino (1645-1720) è alquanto laconico, come sempre riguardo ai personaggi che non ha conosciuto di persona né tramite le confidenze dei famigliari: del Grossi egli non ricorda nessuna data, nemmeno quella della morte, che dunque doveva essere piuttosto remota al momento in cui il cronista dettava le sue memorie (1703).

Don Antonio Mazengo

Dopo la scomparsa del Grossi dai registri contabili del Comune, si vede per quasi cinque anni regolarmente presente Orazio Pollaroli, che passerà in seguito alla cattedrale di Brescia.

Dopo di lui compare alla condotta dell’organo di Quinzano, e continua per sei anni, un altro prete forestiero da Pedergnaga: don Antonio Mazengo. Gli atti municipali (b. 16) lo documentano tra il 29 luglio 1666 e il 29 aprile 1672, e sono esclusivamente (almeno allo stato delle ricerche) dei mandati di pagamento, come al solito in date sparse e per importi non regolari.

Anche di lui, del resto, si occupa Giovanni Gandino (p. 384), ma con maggior cognizione di causa rispetto al Grossi, poiché il nuovo organista era un suo contemporaneo e amico personale, quasi un confidente, col quale il cronista ha condiviso ricordi e preoccupazioni. Dopo il solito tributo celebrativo dei «buoni e semplici costumi» e dei «molti anni» in cui ha suonato «con gradimento della Terra [=del paese] questi organi», l’analisi del Gandino offre alcuni spunti di giudizio critico abbastanza significativi sulla personalità artistica del musico. Scrive il cronista che il Mazengo «diletandosi molto di dar gusto al populo studiava d’havere le amicicie de migliori musici del contorno, per poi benfare in queste Chiese le musiche delle occorenti loro solenità». Dunque, da una parte l’ambizione di piacere al pubblico, sottolineando forse una certa tendenza alla musicalità semplice e gradevole (oggi diremmo di consumo), piuttosto che a quella complessa e intellettualistica; dall’altra il perfezionismo e lo spirito di emulazione, che lo spingevano a frequentare i più bravi colleghi dei dintorni, per trarre ispirazione e apprendere nuove tecniche compositive ed esecutive da applicare nella sua quotidiana professione («queste chiese» sono le chiese di Quinzano).

Una fuga per l’onore

Lo spirito di emulazione, e forse una sottile ansia di inadeguatezza, sono alla base dell’episodio quasi drammatico con cui l’organista si congedò dalla sua condotta. Dopo alcuni anni di onorato servizio, il Mazengo si accorse che un musico di Quinzano («un pretendente paesano») stava trafficando nell’ombra, probabilmente con l’appoggio dell’amministrazione pubblica, per soffiargli il posto («li faceva grande broglio per levarli l’organo»): cosa tutt’altro che inverosimile, poiché il Comune avrebbe certo mostrato maggiore condiscendenza a versare il salario a uno del posto, rimarginando l’onta costituita da un organista forestiero, che implicitamente dimostrava l’inadeguatezza dei musici locali.

Temendo lo scacco conseguente a un licenziamento, a suo parere immeritato ma quasi certo, il maestro di Pedergnaga «d’improviso e di meza notte partì senza mai più quì lasiarsi vedere». Dopo di che fu assunto a Travagliato come organista municipale di quella parrocchia, dove al momento in cui il cronista dettava la memoria (4 febbraio 1703, è scritto subito sotto) trent’anni dopo il fatto, continuava onorevolmente la sua professione, con il perfetto gradimento del pubblico.

Non altrettanto fortunato fu il suo rivale, che – è vero – aveva ottenuto ciò che cercava; ma, pur non essendo persona così perversa e maligna come poteva d’acchito sembrare, morì ancora troppo giovane e pieno di troppe speranze. Quando si dice il rigore del castigo! Il Gandino per discrezione, avendone parlato in maniera non troppo lusinghiera, tace il nome dell’organista successore del Mazengo; ma i registri comunali (bb. 16 e 17), impietosi come sempre e imparziali nella loro fredda didascalicità, rivelano dal 7 dicembre 1672 al 1676 l’onorario di un certo «signor Reverendo Don Giovanni Battista Perticha organista»; dopo di che il suo nome scompare, sostituito soltano nel luglio 1682 (b. 17, c. 99r) da un quasi omonimo «Reverendo Signor Don Gioan Pertica organista». Collegando le due informazioni del Comune e del Gandino, dobbiamo pensare che il povero Giovanni Battista Pertica sia morto dopo soli quattro anni di servizio, lasciando vacante la sua carica, che fu assunta da un parente.

Un dato singolare: pur nella frammentarietà delle testimonianze civiche, appare che la condotta organistica quinzanese finisce saldamente per lunghi decenni nelle mani della famiglia Pertica; infatti, dopo il malcapitato prete Giovanni Battista (1672-1676) e il prete Giovanni (1682-1699), titolare dell’organo quinzanese troviamo un altro Giovanni Battista Pertica tra il 1720 e il 1737 (bb. 19-20); un prete don Giovanni Paolo Pertica nel 1737 (b. 19, c. 466r); e un ennesimo Giovanni Battista Pertica nel 1762 (b. 20, c. 167r), forse lo stesso del 1720.

Un dono alla Madonna della Pieve

Ma sul Mazengo il Gandino ci rivela un altro dettaglio importante: l’organi­sta pedergnaghese era specialmente devoto della Madonna e ossequioso verso i defunti del cimitero di Quinzano, sua patria adottiva, almeno fino alla sua rocambolesca fuga. La devozione, unita alla passione per il suo mestiere di musicista, e al fatto che, in quanto sacerdote e forse cappellano, spesso vi celebrava la messa, sembravano suggerirgli il proposito di far dono al santuario della Madonna della Pieve di un piccolo organo, da collocarsi con la sua cantoria sopra la porta d’ingresso della chiesetta, da utilizzare il sabato e la domenica sera per accompagnare il canto delle litanie. Ma il musico fu impedito di attuare il suo proposito dagli eventi che abbiamo sopra raccontato. E il cronista aggiunge la conferma della sua stessa testimonianza personale, poiché a lui in persona l’amico aveva confidato il suo proposito, durante le passeggiate insieme e dopo le messe che capitava di celebrare in quella cappella.

A questo punto, pur con le difficoltà e i vuoti inevitabili nelle ricerche di questo genere, abbiamo ricostruito una specie di elenco abbastanza coerente degli organisti municipali di Quinzano tra ‘600 e ‘700. Alla lista va aggiunto un personaggio tutt’altro che secondario, i cui estremi biografici sono pure tratteggiati dal sempre puntuale nostro cronista Gandino: si tratta del prete Tommaso Colosso (o Colossi), di cui veniamo a conoscere la data di nascita il 7 marzo 1597; il fatto che fu figlioccio del conte Carlo Provaglio; che il padre Nicolò era amministratore della potente famiglia Martinengo del Castelletto (si noti il toponimo Fienili delle Valli, che avevamo già trovato parlando della parrocchia di Montecchio, cfr. Casanova 1997.10).

Potremmo aggiungere alle scarne informazioni del Gandino, che il Colossi fu organista per molti anni nella prima metà del secolo XVII, e potremmo offrire altre informazioni sulla sua complessa e controversa personalità. Ma il Colossi pretende un capitolo tutto per sé.

Tommaso Casanova
(L’Araldo Nuovo di Quinzano, a. VI n° 55, luglio 1998, pp. 7-8, con aggiornamenti)

Riferimenti bibliografici