La Disciplina: un gioiello troppo nascosto

L’occasione di questo articolo è offerta da due atti notarili del 1645 e 1646 – inediti come tutti i documenti che pubblichiamo in questa rubrica – relativi alla chiesetta della Disciplina, definita come si usava in antico ‘oratorio’, ossia piccolo luogo di culto, di preghiera, di orazione, appunto. Entrambi gli atti appartengono all’archivio di Francesco Gandino, figlio dello Scipione a noi già noto dagli articoli dei mesi scorsi, ed erede della sua attività tanto di notaio che di cancelliere civico e consulente delle principali confraternite di Quinzano.

Non terremo sulle spine il lettore trascurando di anticipare, quanto meno, che si tratta di accordi privati per la realizzazione degli affreschi nella chiesa che sorge accanto alla parrocchiale di San Faustino. Una piccola cappella, un delizioso scrigno (mi si passi l’espressione), ricco anch’esso, come le sue sorelle maggiori, di storia e di arte, se pure di non grande storia o arte, ma di storia nostra e di arte nostra, che in qualche modo ci è di fatto scippata, sottratta all’uso e perfino alla semplice vista.

A questo punto mi par già di sentire qualche lettore che freme di nobile e santo zelo. Avverto subito che non è nelle mie intenzioni di mettere in dubbio qui la buona fede o la buona volontà di nessuno, giacché son cose, la buona fede e la buona volontà, che si possono verificare da tutti alla prova dei fatti, delle scelte concrete e quotidiane, alla prova del tempo. Vorrei soltanto constatare situazioni evidenti e consolidate, riflettere ad alta voce su alcuni princìpi imprescindibili, sollecitare magari un dibattito tra persone colte e civili, che possa approdare a proposte utili, a progetti sensati di interesse comune per l’oggi e per il futuro. Disfattismo?

E la prima constatazione lampante è inevitabile: la nostra Disciplina c’è ma non si vede. È lì, nella sue asciutte linee esteriori, col suo simpatico campaniletto, sotto gli occhi di chi frequenta la messa domenicale. Ma mi piacerebbe che alzassero la mano quanti – a parte i cantori del coro parrocchiale – l’hanno potuta vedere all’interno negli ultimi, diciamo, dieci anni. Eppure è un monumento di Quinzano, dei quinzanesi, e non per modo di dire: i quinzanesi di ieri l’hanno voluta, l’hanno costruita, l’hanno decorata, l’hanno arricchita, l’hanno – perché no – pagata con i loro più o meno sudati risparmi; e i loro nipoti di oggi sono confinati a guardarla dal di fuori, costretti a chiedere “permesso” in casa loro!

Disciplina e disciplini

Se, dunque, casuale può essere il fatto di aver riesumato qualche vecchio documento relativo alla Disciplina, non è casuale che proprio da essa si colga lo spunto per affrontare la questione scottante della conservazione e fruizione dei nostri beni culturali. Il motivo sarà più evidente se spenderemo qualche riga per illustrare cos’era e come funzionava la Disciplina, presente a Quinzano come in quasi tutti i paesi di un certo rilievo nei secoli passati, soprattutto fra il ‘400 e il ‘600.

In effetti l’argomento è stimolante e colmo di prospettive, che purtroppo non è dato qui di sviluppare in tutte le loro implicazioni di storia e di civiltà locale. In attesa di riuscire ad approfondire le ricerche, possiamo però abbozzare alcuni tratti che permettano di comprendere almeno in parte la formazione e il ruolo della Disciplina in un borgo né grande né piccolo come era il nostro a quel tempo.

Contrariamente allo stereotipo, che lega i disciplini (o disciplinati) al fanatismo di penitenti che si battevano appunto con ‘discipline’, cioè fruste o flagelli, il movimento si diffuse capillarmente nelle nostre campagne in un clima di religiosità moderata e attenta ai problemi sociali, assai vicina a quella moderna delle associazioni di volontariato laicale. Gli associati si costituivano in confraternite o 'scuole' perfettamente organizzate, con tanto di statuti e regolamenti. Ogni gruppo aveva il suo collegio di responsabili, eletti periodicamente in modo democratico, e godeva di un patrimonio di beni immobiliari e di rendite provenienti per lo più da offerte e lasciti dei soci stessi o di simpatizzanti. Le entrate dovevano essere devolute, per disposizioni statutarie, a scopi benefici: ad esempio per l’assistenza dei malati o degli orfani, per soccorso dei poveri, per suffragio dei defunti. Le eventuali eccedenze venivano impiegate, quando era possibile, nell’acquisto o nella costruzione di una sede, annessa quasi sempre a una cappella per le preghiere quotidiane o settimanali dei confratelli. Questa cappella costituiva il vanto e – per così dire – il biglietto da visita dell'associazione: vi venivano dunque impiegate le migliori energie economiche e culturali degli associati. È per questo che dovunque esisteva una confraternita sorgeva anche una chiesa che, quando la stoltezza dei posteri non ha infierito, rimane ancor oggi a documentare la fede e la creatività dei padri.

La congregazione quinzanese

Le vicende secolari della Disciplina di Quinzano non mi risulta siano mai state approfonditamente indagate: solo qualche smunto articoletto sulla chiesa, ma nulla di più. La confraternita locale, secondo le confuse informazioni del Pizzoni (1640, p. 12"), dovrebbe essere stata eretta nel 1467 con il titolo di “Compagnia della Croce nell'Oratorio de Disiplini”, che dunque esisteva da prima. Più tardi (p. 13), nel 1474 (per errore è scritto “1447”) lo storico quinzanese individua invece una “Compagnia de Disciplini di Santo Spirito”. Parla infine (p. 26) di “disciplini” senz'altra qualifica per il 1536 (ma ancora per un refuso scrive “1635”). Difficile raccapezzarsi in questo marasma. Non si può comunque escludere che il vocabolo ‘disciplina’ venisse usato in senso puramente generico, a indicare una qualsiasi confraternita di laici associati per scopi di volontariato e di devozione.

In ogni caso, dalla metà del secolo XVI all’incirca, la nostra Disciplina dovette essere intitolata ai santi Bernardo e Martino, i quali appunto vengono raffigurati, accanto alla Madonna col Bambino e ad alcuni membri della congregazione, nel quadro (datato 1589) che costituiva la pala dell’altare nella piccola chiesa, e che ora si trova sopra la cantoria di fronte all’organo nella parrocchiale.
Con questo titolo, infatti, (talvolta ridotto al solo san Bernardo, più raramente a san Martino), i disciplini agiscono in parecchi atti notarili seicenteschi da noi recentemente recuperati, che rivelano un fervore di attività e di iniziative abbastanza significativo nel panorama sociale e religioso di Quinzano in quegli anni.

Da compravendite, affittanze, permute, procure ed altri atti di vario genere, ci si delinea una associazione vivace, costituita da un manipolo di personaggi benestanti, tutti laici, molti dei quali artigiani (come risulta dal titolo di “maestro”). La gerarchia delle cariche sociali è abbastanza minuziosa, ma organizzata in una forma di corresponsabilità che si caratterizza per la frequente alternanza. Dalla comparazione dei due documenti che commentiamo più sotto, ad esempio, si vede come il consiglio direttivo era composto anzitutto da priore e sotto priore (presidente e vice presidente), da un sindico (una specie di rappresentante legale), da due consiglieri, un massaro (tesoriere), un cancelliero (segretario); ai due sacristani dovevano essere demandati incarichi di sorveglianza e manutenzione della chiesa e della casa annessa. Si noterà, tra l’altro, che il priore e il sindico a distanza di pochi mesi non sono più gli stessi.

Il pittore Bellanda

Vivace attività, circolazione di moneta, sensibilità culturale, ambizione di eccellere di fronte alle diverse altre confraternite del paese e del distretto – anche questo può essere un valido movente –, sono condizioni ideali per metter mano a un’opera di non poco conto.

Non erano trascorsi ancora trent’anni da quando nel 1618 i reggenti di San Rocco avevano realizzato la decorazione a fresco del coro della loro chiesa: e quell’impresa doveva aver lasciato un segno nella memoria dei vecchi quinzanesi. Quattro anni dopo, nel 1622, anche i disciplini avevano intrapreso progetti impegnativi, tentando di forzare il Comune ad abbattere la chiesa preesistente per costruirne una nuova (cfr. Regione Lombardia, 1984). Non sappiamo di preciso come sia andata a finire, ma è assai probabile che, dopo qualche tempo, il nuovo oratorio di San Bernardo, più o meno rimaneggiato e rifatto, fosse pronto ad accogliere le preghiere e le attività caritative dei devoti confratelli.

La mestizia delle pareti spoglie e la volontà di lasciare una significativa impronta della propria generazione mosse i ricchi disciplini alla deliberazione di far decorare anzitutto il presbiterio: quello che ospitava un tempo l’altare e che oggi, separato – per chissà quali ragioni di convenienza – con un muro dalla navata, è ridotto al rango di ripostiglio.

L’artista prescelto per l’impegnativa opera è il «il signor Andrea Belanda habitante in Brescia Professore dell arte di pittura» (non dunque “Andrea Bellani”, come riteneva di leggere invece nel cartiglio della volta l’anonimo autore dell’articolo del 1984). Questo nome ci è affatto sconosciuto, anche se fra i testimoni del primo contratto figura un certo «signor Carlo di Bachiochi collega de esso signor Pittore», il quale non può essere che il pittore Carlo Baciocchi, da cui furono dipinti i due quadri raffiguranti i miracoli di Sant’Antonio di Padova, datati 1660 e conservati nella nostra chiesa parrocchiale sulla parete destra vicino all’ingresso (cfr. GUZZO, 1986]. Di questo Baciocchi, frate domenicano di origine milanese, si sapeva che fu attivo nel bresciano tra gli anni 1657 e 1672: ora possiamo aggiungere che nel 1645 lavorava accanto al Bellanda, insieme al quale forse teneva bottega d’arte. Ma con le illazioni è meglio fermarci qui: il resto è compito di chi ne sa più di noi.

Gli affreschi del coro

Con il Bellanda, dunque, il 25 novembre 1645 i disciplini stipulano il contratto di commissione per gli affreschi del coro. Il testo che abbiamo recuperato è una copia frettolosa e molto scorretta: doveva essere una specie di minuta, conservata dal notaio come documentazione personale.

A parte gli errori abbondanti e diffusi, la sostanza dei patti è ben riconoscibile: le parti si accordano per la realizzazione di «varie et belle figure», definite approssimativamente nel testo stesso del contratto. Il primo “quadro”, ossia riquadro naturalmente a fresco, al centro della volta dovrà raffigurare la Madonna Assunta. Seguono quattro motivi relativi alla passione di Gesù, che era l’oggetto principale del culto delle Discipline: a) la salita al Calvario, b) la preghiera nell’Orto degli ulivi e la cattura, c) la flagellazione, d) l’incoronazione di spine. Non sappiamo, però, dove siano collocati con precisione, poiché nel testo non è specificato, mentre nella chiesa le pareti del coro sono ancora interamente coperte dall’intonaco che occulta i dipinti originali. Posto che la parete di fondo era occupata dall’altare e dalla sua pala, e quella di fronte era costituita dall’arco che comunicava con l’aula della chiesa, i quattro riquadri, sempre che siano stati realizzati come dal progetto, potrebbero trovarsi due per parte sulle pareti laterali.

«Sopra il Choro», ossia sulla volta intorno all’Assunta, oppure sopra i quattro riquadri, due angeli dovevano campeggiare con i simboli della passione, più o meno sul tipo di quelli che saranno realizzati l’anno dopo dallo stesso pittore nel corpo della chiesa e sono tuttora visibili. Sulla parete di fondo dell’altare, al di sopra della pala, sarebbe stato dipinto Dio Padre affiancato dallo Spirito Santo.

Più complicato è definire cosa sia quella “gielogia” sotto la quale l’artista doveva affrescare «due Profeti ... rapresentanti la passione di Christo». Occorre ricordare che il corpo della chiesa è costituito da due aule sovrapposte, il pianterreno per i fedeli comuni e quello superiore riservato ai confratelli, mentre il presbiterio ha una altezza che le comprende entrambe, così da consentire anche da sopra di assistere alle liturgie attraverso una balaustra o una grata in legno. Se è questa la “gielogia” (gelosia, grata) di cui parla il contratto, i profeti dovrebbero essere stati realizzati sui due lati dell’estradosso dell’arco oggi murato, dalla parte rivolta verso l’abside.

Il compenso per questa prima parte dell’opera è pattuito a 38 scudi (oltre 233 lire planet), da pagarsi 10 alla stipula dell’accordo, 10 alla conclusione del lavoro, e i restanti 18 entro giugno dell’anno successivo; in più il contributo in natura di una zerla di vino (poco meno di 50 litri).

La navata della chiesa

Il lavoro dovette procedere secondo i tempi previsti, e con soddisfazione dei committenti, se a luglio del 1646 si provvedeva a stilare un nuovo contratto per la decorazione del resto della chiesa. Nel testo si fa cenno anche ad una «Parte seguita ... del dì primo corente», cioè una delibera ufficiale del consiglio della Disciplina, rappresentato quasi per intero all’atto della sottoscrizione.

Non si definiscono più, come nel primo accordo, i soggetti dettagliati da dipingere, ma si parla genericamente dei «misterij della Santissima Passione di nostro Signore». In compenso, chi voglia sapere che cosa il pittore vi raffigurò, potrà tentar di visitare il luogo e di vedere con i suoi propri occhi (io non ci sono riuscito).

Curiosa la clausola che impone «da dover le figure di esse tutte esser fatte di man propria de esso signor Pittore»: segno che era abitudine dei vecchi artisti di far realizzare alcuni personaggi minori e le decorazioni generiche ai garzoni della bottega. Il termine per la chiusura del cantiere è fissato a dieci giorni dalla Natività di Maria (8 settembre). Il compenso, invece, non è determinato, ma è demandato alla perizia di uno dei disciplini, il maestro Francesco Negro, che doveva certo avere qualche competenza in materia, vista la fiducia che gli accordano le parti.

Decisamente originale è la modalità del pagamento: in frumento, da valutarsi al prezzo che avrà al momento in cui sarà versato in compenso al pittore. Un mezzo questo che dipendeva – si può supporre – dal fatto che i beni della Disciplina erano costituiti prevalentemente da terreni, e quindi la disponibilità del prodotto era più agevole di quella dei contanti che se ne sarebbero ricavati. Si saltava un passaggio, se si cedeva direttamente il frumento al pittore, lasciando che fosse lui stesso a provvedere poi alla vendita.

Un’ultima notazione relativa ai testimoni: nel primo documento sono detti tutti originari e abitanti di Quinzano, ma almeno il pittore Baciocchi non lo era; nel secondo compare don Pietro Antonio Gandino, fratello del notaio e personaggio assai in vista in quegli anni nel paese.

Un paio di suggerimenti

Qualcuno disse che la storia è maestra di vita: io non lo credo, ma penso che possa almeno rappresentare un archivio di idee e di esperienze con cui confrontare il nostro presente.

Dunque: se i nostri antenati, in un’età ben più ostile e faticosa della nostra, hanno saputo organizzarsi e costruire tante memorie che parlano ancora oggi di loro, noi, figli di un mondo tanto più ricco e agevole, non saremo in grado di metterci insieme, non dico per edificare altrettanto, ma semplicemente per difendere quello che del passato ci è rimasto, e che contiene il patrimonio genetico della nostra cultura, cioè di noi stessi?
Se nei secoli scorsi c’erano i disciplini, i reggenti di San Rocco, la vicinìa di San Giuseppe, ossia gruppi di persone che per il fatto di abitarvi accanto o per affetto e tradizione famigliare si assumevano in comune la cura e la gestione degli edifici di culto del paese, non è pensabile che i quinzanesi di oggi si raccolgano attorno alle loro chiese per salvarle dalla dimenticanza definitiva?

E, riguardo alla Disciplina, non è proponibile un progetto di ripristino e di riutilizzo dell’ambiente, per esempio come cappella feriale nei mesi invernali? Naturalmente intendo un progetto ampio, che nasca dalla comunità, nella condivisione delle opinioni e senza che si sacrifichino le legittime esigenze di tutti quanti lavorano con impegno avendo a cuore il bene comune e il progresso della cultura.

Chi è responsabile in qualunque modo e a qualunque titolo della comunità non è padrone: è custode, e come tale deve agire e deve sempre e fedelmente (umilmente, vorrei dire) rendere ragione a coloro a nome dei quali ha assunto la grave responsabilità della custodia. I quinzanesi hanno già provato una volta lo sfregio dell’arroganza altrui, quando si son visti abbattere con boriosa sufficienza un altro tempio della loro dignitosa storia e della loro semplice fede: la chiesa campestre di Montecchio. Ed è ferita non del tutto rimarginata, né mai più rimarginabile. Non potranno accettare che si faccia ancora scempio della loro storia e della loro civiltà, soggiacendo passivamente alla mercé di chi riduce la cultura – e non solo in metafora – sotto la suola delle scarpe.

Tommaso Casanova
(L'Araldo Nuovo di Quinzano, a. 4 n. 29, marzo 1996, pp. 7-8)

Riferimenti documentari e bibliografici