L’altare del S. Rosario in S. Rocco

s rocco rosario 01Riprendiamo, dopo la pausa estiva, la nostra riflessione sui vecchi documenti che ci attestano momenti inediti della storia quinzanese nei secoli xvi-xvii. Non possiamo dunque evitare di trarre un piccolo bilancio dell’esperienza fatta fino a questo punto.

Dal gennaio al giugno scorso abbiamo impiegato lo spazio cortesemente apertoci dall’Araldo Nuovo per una rassegna di pagine del nostro passato, dove compaiono di volta in volta eventi e personaggi non sempre ben noti, talora del tutto sconosciuti. E tuttavia l’intento che ci ha mosso non era il semplice gusto dell’erudizione, il piacere di mettere in mostra i frutti delle nostre fortunate escursioni d’archivio. Credevamo che il puro racconto non dovesse essere l’ultimo, l’unico scopo della ricerca e della divulgazione. Credevamo che la lettura del documento potesse – come sempre dovrebbe – essere il punto di partenza, lo strumento per rileggere da una prospettiva al­ternativa e insolita il nostro tempo, in particolare il nostro tempo di quinzanesi di fine millennio. E credevamo che i quinzanesi, almeno quelli sensibili, ci avrebbero compresi, e sostenuti magari. Credevamo!

In realtà abbiamo avuto anche lusinghieri riscontri, ma dalla parte che meno ci interessava: dal di fuori. Mentre a Quinzano le reazioni più consistenti riguardavano... la dimensione dei caratteri di stampa («mé però l’ó mìa lisìt, nèh!», si è comunque subito premurato di attestare il dotto critico).

Pazienza: una buona cura contro la presunzione.

Del resto noi siamo troppo convinti del valore educativo della storia per rinunciare così presto a scandagliarla, a rifletterci sopra, a confrontarla col presente e a mettere in comune i risultati, pur sempre parziali e provvisori, delle riflessioni. In fondo è più importante salvare un principio di civiltà che non un quadro, restaurare un’idea forte che non un foglio acido di muffa.

Quelli di Mercàt

Erano idee forti e principi di civiltà che muovevano i nostri secenteschi a intraprendere le loro imprese artistiche, anche se per i condizionamenti di quella società e di quei tempi il campo d’azione era fortemente confinato nell’ambito del culto e della religione. Questa era comunque una dimensione fondamentale della cultura e, senza essere repressione della libertà e della fantasia, era incentivo a mettere a frutto il meglio delle energie della comunità, in un regime che, in tempi di dominante autoritarismo, rappresentava un alto grado di corresponsabilità, oggi diremmo di democrazia.

Abbiamo visto, nei precedenti articoli, diversi esempi dell’intraprendenza, talvolta al limite del rischio, delle associazioni laicali nelle varie chiese di Quinzano: i rappresentanti delle famiglie del vicinato di San Rocco commissionavano dipinti e acquistavano un organo; i confratelli della Disciplina se ne facevano emuli realizzando i propri affreschi; i notabili locali stringevano rapporti con gli ambienti culturali migliori della città e della regione; il Comune assumeva professionisti di qualità, destinati ad una luminosa carriera. Avremo modo nei prossimi mesi di pubblicare diverse altre pagine che attestano questo intenso fervore. Qui ci soffermiamo su una serie di episodi che concernono ancora una volta la chiesa di San Rocco: sembra che gli abitanti di Mercàt si siano distinti in tutti i tempi per vivacità e iniziativa, o almeno ne hanno lasciato le tracce più consistenti.

Il 18 maggio 1612 un comitato costituito da Bernardino Zopetto, Paolo Vertua, Giuseppe Nember e Bartolo Marino si rivolge al notaio Scipione Gandino, da noi già più volte incontrato nelle nostre avventure archivistiche, per accordarsi con un artista di Gabiano (oggi Borgo San Giacomo). L’intenzione è quella di realizzare l’ancona, ossia (detto semplicemente) la cornice del quadro, da porsi sopra l’altare del Santo Rosario, appunto in San Rocco.

Le confraternite del Rosario

A questo proposito occorre fare un passo indietro. Le confraternite del Santo Rosario erano istituzioni laicali diffuse dall’Ordine domenicano nel secolo xvi, che ricevettero un forte impulso dopo la famosa vittoria di Lepanto contro i Turchi il 7 ottobre 1571. In seguito a quella circostanza il papa san Pio V istituì (1572) la festa della Beata Vergine Maria della Vittoria, che fu intitolata alla Madonna del Rosario dal successore Gregorio XIII (1573). Questo pontefice promosse la celebrazione della prima domenica d’ottobre dovunque esistesse un altare e una confraternita dedita al culto del Rosario, disponendo di solennizzare il rito con le grandi processioni della vigilia, che sopravvivono ancora in quasi tutti i nostri paesi.

A Quinzano non è documentata una confraternita del Rosario in quegli anni. In compenso il Pizzoni (1640, p. 32) ci ragguaglia sull’epoca e la ragione per cui sorse tale compagnia. Egli ricorda il 1576 come l’«anno detto della Paura», per la calamità della peste che, penetrata dal Trentino e dal Veneto, si diffuse nel Bresciano. Poi prosegue, rivelando come l’anno seguente 1577: «in Quinzano li huomini di questa Communità misero buone guardie verso Mesullo dove [la peste] faceva progressi, ma per gratia di Dio non passò la contrada delle Caselle, per la buona vigilanza di cui era officio, all’hora fecero voto di ridurre in meglior stato la Chiesa di S. Rocco, come hora si vede, & ivi fù instituita la compagnia del Santissimo Rosario». 

Dunque la compagnia sorse in San Rocco dopo il 1577, ed è probabile che insieme con essa si erigesse l’altare destinato alla devozione verso la Madonna del Rosario.

A questo proposito ci vien fatto di osservare che in quasi tutte le comunità del circondario, grandi o piccole che siano, esiste un altare del Rosario (con annessa confraternita, almeno in origine). Esso si trova di norma nella chiesa parrocchiale ed è uno dei tre altari principali, insieme al maggiore e a quello del Santissimo Sacramento; la tipologia poi presenta solitamente un dipinto mariano o una nicchia al centro, e tutt’intorno quindici piccole tavole raffiguranti i quindici misteri. A Quinzano singolarmente la chiesa parrocchiale è priva dell’altare del Rosario, che ha sede invece nella chiesa vicinale di San Rocco; inoltre non compare nella struttura architettonica del piccolo altare il motivo della raffigurazione dei misteri.

L’altare in San Rocco

S’è detto che l’erezione della compagnia del Rosario in San Rocco a Quinzano risale al 1577 (o poco dopo), epoca alla quale si può far risalire anche il relativo altare. L’atto di convenzione del 1612 con cui si commissiona la fattura dell’ancona è però posteriore di 35 anni: riguardava il primitivo altare? oppure dobbiamo pensare ad una ristrutturazione più complessa, a un rifacimento di tutto l’ambiente di pertinenza della confraternita?

Qui ci viene in soccorso un atto del solito notaio Scipione Gandino (quanto gli siamo debitori per la conoscenza della nostra storia!) tratto dalla stessa filza 4640 da cui provengono i due commentati di seguito.

Siamo nel giorno di Pasqua, 29 marzo 1592. Nella chiesa di San Rocco in Quinzano, contrada della via di Brescia, sono presenti i preti don Domenico Vertua e don Pietro Marini, quindi don Bartolomeo Gandino padre del notaio rogante, maestro Paolo Vertua, ser Giovanni Marino, maestro Pietro Antonio Iori, ser Paolo Cirimbelli e ser Francesco Vertua, tutti residenti a Quinzano.

In cima alla lista, però, sta il molto reverendo e magnifico don Vincenzo Manzino, cittadino di Rimini residente a Quinzano, degnissimo prevosto della chiesa di Santa Maria delle Grazie chiamata “la Pieve”. Sarà strano, ma il testo alla lettera dice proprio «multum Reverendo et magnifico Domino Vincentio de Manzinis Dignissimo Praeposito Ecclesie nuncupate Sancta Maria delle gratie vocata la plebe cive ariminense ad presens moram trahente Quintiani»: e se quanto al titolo delle Grazie possiamo star certi che si tratta di una svista (Santa Maria delle Grazie era la chiesa del Convento, non la Pieve), non sappiamo cosa dire circa la qualifica di Praeposito (prevosto), che compare qui per la prima volta in Quinzano, per quanto ne sappiamo, e che non si ritrova più fino alla fine del ‘700. Vincenzo Manzino fu a capo della nostra parrocchia tra il 1586 e il 1617.

Questioni di titoli a parte, il degno consesso, che forse rappresentava il complesso della confraternita, assisteva alla fondazione, o piuttosto ricostituzione solenne, della società dell’altare del Rosario. Ma è meglio lasciare la parola al documento, di cui riportiamo in traduzione la parte più significativa:

"Il reverendo padre fra Costanzo de Talentis, cittadino di Brescia, sacro oratore dell’Ordine dei Predicatori di San Domenico (un domenicano, dunque) [...] volendo accrescere in dignità («amplificare et augere») la compagnia dell’altare della Beatissima Vergine Maria del Rosario posta nella chiesa di San Rocco di Quinzano («societatem altaris Beatissime Virginis Marie Rosarij positam in dicta suprascripta Ecclesia sancti Rocchi dicte terre») per l’autorità di cui è investito [...] ha eretto ed erige e ha trasportato e trasferito il fondamento e le indulgenze, concesse all’altro altare posto sul lato sinistro, nel nuovo altare, volendo che tutte le indulgenze e grazie concesse all’altare suddetto siano trasmesse e trasferite nel nuovo altare [...] esistente sul lato destro della medesima chiesa presso l’altare maggiore e proprio accanto alla sacrestia, alla presenza di grande folla di uomini e donne («magna multitudine hominum et mulierum astantium»), con tutte le indulgenze concesse alla confraternita da molti pontefici ed altri dignitari della chiesa, e ciò col consenso di tutti i citati testimoni e di altri non menzionati nel presente atto [...]".

Una buona messe di informazioni e conferme interessanti: da questa traslazione veniamo a sapere che un precedente altare del Santo Rosario (quello del 1577 evidentemente) esisteva sul lato sinistro della chiesa, forse (ma non è detto) nel luogo dove ora si trova l’altare di San Carlo; il vecchio altare del Rosario era già dotato di privilegi ed indulgenze pontificie, ed era officiato da una confraternita canonicamente eretta; questa confraternita, chiamata nel documento “Società dell’altare della Beata Vergine Maria del Rosario”, faceva riferimento per la propria conduzione spirituale all’Ordine dei domenicani di Brescia.

Il nuovo altare veniva collocato lungo la parete di fronte, ossia sul lato destro della chiesa, appena fuori del presbiterio, di fianco alla sacrestia: è appunto questa la posizione che l’altare del Rosario conserva ancora oggi.

La nuova ancona

L’altare preesistente doveva avere già una immagine della Madonna del Rosario, che nei primi tempi sarà stata utilizzata anche nella nuova sede. Tuttavia il bel quadro anonimo dell’Incoronazione di Maria Vergine del Rosario, con la Santissima Trinità e i santi Domenico e Caterina da Siena, è stato attribuito da Fusari [1986] all’or­ceano Grazio Cossali (1563-1629) e ricondotto agli anni intorno al 1603. In tal caso dovremmo desumere che sia stato realizzato solo dopo la trasposizione dell’altare.

Passò comunque una ventina d’anni, prima che i reggenti della società decidessero di edificare una adeguata ancona al loro altare: ed ecco che il 18 maggio 1612 si strinse accordo con l’intagliatore Ludovico del quondam Manento di Manenti, di Gabiano, di cui è testimone il contratto che intendiamo presentare.

A voler essere pignoli, nel nostro atto non compare mai espressamente nominata la confraternita del Rosario; non si dice nemmeno che i notabili che trattano con l’artigiano siano i reggenti dell’altare. E tuttavia non saremo lontani dal vero se supponiamo che i quattro stipulanti fossero i dirigenti dell’associazione, e i testimoni che si sottoscrivono fossero il gruppo degli associati, o una rappresentanza. Otto persone erano pure quelle che avevano partecipato con il parroco Manzino alla traslazione dell’altare nel 1592, e altrettante figureranno nell’atto del 1615 per la doratura dell’ancona, come vedremo: possiamo immaginare che questo o prossimo a questo fosse il numero consueto dei componenti della confraternita.

I quattro reggenti si accordano, dunque, con il Manenti per la realizzazione di un’opera in legno intagliato, con colonne, zoccolo (pedestano, piedestallo, dice il testo) e cornicione in stile corinzio, intorno alla pala della Madonna del Rosario. Il dato di maggiore interesse è la menzione della «forma et modello come nel presente folio [...] sottoscritto detto ornamento per mi nodaro sottoscritto et per messer Bernardino Zopetto lasciato poy nelle mani di detto ser ludovico», che rimanda a un progetto della decorazione, allegato all’originale del contratto, controfirmato dal notaio e dallo Zopetto, che forse era il presidente della confraternita, e consegnato all’artista al momento della sottoscrizione.

Il termine del lavoro è posto entro due mesi, ossia a metà luglio. Il prezzo definitivo è di 150 lire planet (moneta bresciana), da pagarsi in quattro termini: 11 scudi (che valgono 45 lire e 2 soldi) alla stipula; 30 lire a fine giugno, altre 30 a San Rocco 16 agosto, e infine il resto (44 lire e 18 soldi) a San Giacomo 25 luglio dell’anno successivo 1613.

La indoratura

Nulla sappiamo del procedere del lavoro né della sua posa in opera o del gradimento dei quinzanesi. Ma gli atti dello stesso notaio, poco più di tre anni dopo, il 19 luglio 1615, tornano a parlarci della ancona del Manenti. I soliti quattro notabili, tre dei quali già comparivano in vario grado nello scritto del 1612, sono stavolta definiti «agenti della detta chiesa», cioè di San Rocco; uno di essi inoltre, Francesco Vertua, è presentato come «massaro della chiesa de Sancto Rocho». Sembra quindi che si identifichi la vecchia società del Rosario con la reggenza della chiesa, come forse accadeva anche prima, pur senza che i documenti ne dessero conto in modo esplicito.

A nome della chiesa, i delegati consegnano l’ancona intagliata della gloriosa Vergine Maria del Rosario al quinzanese messer Lutio quondam messer Gabriele Guadagno per la doratura. L’artista si impegna a «indorar à or finno videlicet [cioè] parte à gretolo et parte à or liscio et parte à latta de grana»: tecniche di decorazione che si potrebbero anche intuire, ma che preferiamo lasciare alla spiegazione di chi se ne intenda.

Il compenso per la delicata operazione viene pattuito in 40 scudi da 4 lire e 2 soldi (164 lire): un prezzo superiore a quello versato tre anni prima all’intagliatore, certo perché c’era di mezzo l’acquisto dell’oro fino, che non doveva essere neppure allora a buon mercato. Forse proprio alle eventuali fluttuazioni del prezzo del metallo nel tempo allude la clausola un po’ oscura «et dalli 40 alli 45 [scudi] si rimette detto messer Lutio nelli soprascritti regenti finita che sara l’opera» (45 scudi farebbero 184 lire e mezza).

La premura dei responsabili era di avere pronto l’altare per fine ottobre; il denaro doveva essere consegnato all’artista di mano in mano che gli occorresse la materia prima, e il conto sarebbe stato saldato a un anno dal completamento della decorazione. Presenti a garanzia Giulio Guadagno, fratello dell’artista, e tre testimoni per parte della confraternita.

Il passato e il presente

Ancora una volta le vecchie scartoffie ci hanno messo davanti agli occhi l’esperienza dei nostri passati quinzanesi, dediti non solo ai propri affari privati, ma anche a un interesse pubblico, di carattere non minutamente materiale.

Non è che noi moderni non sappiamo lasciare le nostre brave impronte, per segnalare che ci siamo stati: si vada a vedere che cosa sta producendo la bella trovata di aprire una bocca di riscaldamento che soffia proprio addosso all’altare del Rosario, sull’ancona ora non più anonima e sul quadro, sugli affreschi decorativi che affiorano dall’intonaco scrostato, e che tra poco svaniranno definitivamente, come tante altre opere annegate nella nostra indifferenza. E sorvoleremo su ciò che si è fatto per far posto a quell’indispensabile riscaldamento, tanto più che le nostre chiese ci sono da oltre cinquecento anni, e per oltre cinquecento anni sono benissimo sopravvissute senza riscaldamenti.

Io però non rinuncio a sperare.

Ve la immaginate una pubblica amministrazione, con senso equilibrato dell’iden­tità locale e con autorevoli e colte guide, che si prendesse a cuore tutte le tracce che la nostra gente ha lasciato sulla sua strada, che è poi la nostra; poche o tante che siano, ricche o povere, non ha nessuna importanza, se non si misura tutto con la bilancia del profitto immediato, ma con il metro del tempo che passa e che comunque farà pulizia dell’ignoranza e della meschinità.

Ve lo immaginate un pubblico amministratore che, come è accaduto per oltre mille anni fino al secolo scorso, si fa catalizzatore della comunità intera e delle sue parti vitali, perché si specchino nell’orizzonte della società più vasta, si riconoscano nella propria individualità, e inventino con intelligenza il loro autentico modo di lasciare segno di sé a chi succederà: un segno creativo, positivo, aperto alla diversità di chi non appartiene per qualunque ragione al nostro luogo.

Non dico mica di metterci a fabbricare chiese, come facevano quasi ad ogni generazione i nostri antichi, di commissionare dipinti, sculture, altari, torri, portici, giardini, come facevano loro, che pure erano tanto meno dotati di noi in mezzi e in denari. Sarebbe già molto che non lasciassimo marcire nel disinteresse quello che già c’è.

La nostra civiltà è troppo presa dal celebrare il futuro (ma quale futuro?), per trovar tempo di salvare il presente o, peggio, di ascoltare il passato. Ma forse non bisogna disperare del buon senso della storia: i quinzanesi forse hanno sempre avuto, in ogni occasione, la guida che si meritavano.

Tommaso Casanova
(L’Araldo Nuovo di Quinzano, a. 4 n. 34, settembre 1996, pp. I-II)

Riferimenti documentari e bibliografici