Il prete degli ammalati e dei poveri: don Giovanni Bina

È giusto che non dimentichiamo questo sacerdote, caro al cuore di molti quinzanesi, naturalmente di quelli un po' più avanti nell'età, che l'hanno conosciuto e hanno potuto apprezzare le sue virtù di mente e di cuore effuse a piene mani per quarant'anni tra la popolazione del nostro paese.

Nato a Volongo (Mantova) da una famiglia ricca soltanto di figli e legata all'ambiente rurale, da bambino dormiva talvolta sul fienile per mancanza di un letto e frequentava saltuariamente la scuola per esigenze di lavoro.

La sua vocazione fu a lungo contrastata, per causa dell'estrema povertà: non poteva assolutamente la sua famiglia mandarlo in Seminario a undici anni e mantenerlo agli studi, come facevano le famiglie degli altri seminaristi; tanto più che non aveva ancora conseguito neppure la licenza elementare. Pensarono allora di mandarlo a lezione da un sacerdote, che si offriva di prepararlo agli esami di quinta elementare gratuitamente, però abitava in un altro paese distante alcuni chilometri. Un amico più abbiente, che possedeva un cavallo e un calesse, si rese disponibile per accompagnarlo alle lezioni; e quando finalmente riusci a conseguire la licenza elementare, aveva già sedici anni e difficoltà insormontabili gli si paravano davanti, impedendogli di proseguire il cammino. L'amico abbiente divenne strumento della Provvidenza e destinò una somma di denaro al Seminario perché con i frutti si potessero pagare le spese indispensabili al proseguimento degli studi. Cosi si realizzò il suo sogno e fu sacerdote.

Fu a Cigole prima e poi a Verolavecchia, dove fu aspramente combattuto e selvaggiamente picchiato dagli squadristi fascisti.

Venne a Quinzano nel 1930, e qui iniziò il suo quarantennio di umile servizio, diretto soprattutto agli ultimi, agli ammalati, ai poveri, agli emarginati. La sua umanità semplice ed evangelica, la sua faccia rubiconda e sempre sorridente, la sua parola espressiva e fluente, lo rendevano subito amico di tutti. Era una corrente di simpatia e di amicizia sincera che subito sapeva stabilire con la gente, con tutta la gente che incontrava casualmente per la strada o che andava a trovare nelle case, dove, seduto a bere un bicchiere di buon vino, continuava discorsi incominciati altrove o in altri tempi, portando avanti un dialogo cordiale e costruttivo, sciogliendo dubbi o dando consigli a chi glieli chiedeva.

Ma i suoi prediletti erano gli ammalati, soprattutto quelli che sapeva un po' lontani dalla fede e dalla pratica religiosa. Li visitava spesso, con tanta bontà e pazienza, e ne riceveva talvolta aspri rifiuti: qualcuno si nascondeva sotto le coltri per non vederlo. Di questo non si offendeva, anzi, ritornava e parlando sempre con pacata bontà dell'amore e della misericordia di Dio, senza forzare la volontà di nessuno, sapeva sta. bilire un tale clima di fiducia e di amicizia, che alla fine quasi tutti si convertivano e si confessavano. Una volta, ad un impenitente che gli diceva: «No, non mi confesso; non voglio che mi portino il Viatico con l'ombrellino e le candele accese e tutta la gente in processione», rispose: «Ti prometto di venire solo e portarti il Signore senza nessun altro apparato». E quello ricevette i Sacramenti e morì in pace con Dio.

Un altro da moltissimi anni non frequentava la Chiesa e alle sue esortazioni rispose: «Le prometto che quando starò per morire la manderò a chiamare per confessarmi». Ma quando fu venuto il momento e don Giovanni si recò da lui per compiere la promessa, la moglie si oppose e non gli permise di entrare, lasciandolo morire senza sacramenti. Qualche tempo dopo, la moglie impazzi e fu portata in manicomio a Pontevico, dove il sacerdote la visitava spesso, cercando di dialogare con lei. Ma dalla sua bocca usciva sempre la stessa frase: «Mio marito è all'inferno. perchè è morto senza sacramenti e io andrò all'inferno con lui quando morirò». Giunse anche per lei il supremo istante della vita, e don Giovanni recatosi faticosamente in bicicletta al suo capezzale, raccolse la sua confessione e le portò il Viatico appena il tempo per vederla spirare.

Altre volte si adoperava a riportare la pace tra parenti o vicini di casa che avevano litigato; aveva sempre una parola buona per tutti, ispirata al messaggio evangelico dell'amore e della pace. Moltissimi sono gli episodi della sua vita che lo dimostrano, ma non si possono raccontare tutti. Una cosa è certa: le sue prediche, fatte dal pulpito con voce vibrante e con gesti vigorosi e scattanti, non erano forse di una straordinaria profondità teologica, ma nella loro limpida semplicità evangelica rispecchiavano veramente la realtà della sua vita; si sentiva che era convinto di quel che diceva e che prima di proclamare agli altri la Parola di Dio, cercava di praticarla concretamente nel suo vissuto quotidiano. Molti sacerdoti, in diocesi e anche fuori, lo chiamavano spesso a predicare nella loro parrocchia, in occasione di feste solenni o di celebrazioni particolari. Sapeva suscitare entusiasmo e devozione, sapeva farsi ascoltare con attenzione dalle folle di fedeli, che ancora gremivano le chiese.

Abitava la casa annessa alla chiesa di San Rocco e i fedeli del rione di Mercato gli erano particolarmente affezionati. Però tutti i parrocchiani lo stimavano e lo amavano, perchè per tutti si prodigava con grande generosità. Quando la prima Messa in parrocchia era alle ore 6 del mattino, alle 5,30 immancabilmente era seduto nel confessionale ad attendere i penitenti per la confessione. Alcuni minuti prima delle 6 si recava in sacrestia per prepararsi per la Messa, poi si portava ai piedi dell'altare e la celebrava con profondo raccogliemento. Tornava poi in confessionale a confessare tutti quelli che lo desideravano (allora ce n'erano sempre tanti).

Un angoscioso patema d'animo fu per lui il passaggio dalla Messa in latino a quella celebrata in italiano, come aveva stabilito il Concilio Vaticano II. Però si sforzò di adeguarsi di buon grado alle nuove norme, anche se molto spesso gli scappavano ancora le parole in latino che da tempo immemorabile aveva mandato a memoria.

A 85 anni fu colpito da una paresi, da cui si riprese ancora abbastanza. Però non si recava più a celebrare la Messa in parrocchia, ma la celebrava ogni mattina nella chiesa di San Rocco, aiutato da alcuni chierichetti, alla presenza di un piccolo gruppo di fedeli. Memorabili sono rimaste le Messe celebrate a Natale sotto il monumentale presepio costruito davanti e sopra l'altare dal nipote e da altre persone disponibili.

A 86 anni la paralisi progressiva si aggravò, tanto che fin che poté celebrò la Messa nella sua camera da letto. La malattia lo portò alla morte il 15 novembre 1970. Unanime fu il compianto, immesa la commozione, soprattutto delle persone umili e semplici che istintivamente lo sentivano uno di loro, consapevoli di trovarsi di fronte ad un sacerdote che, amando gli ultimi, aveva testimoniato il Vangelo con l'esempio silenzioso di tutta la sua vita.

Gesuina Bergamaschi
(La Pieve, a. XVII n. 1, gennaio 1988, pp. 16-17)