Ricordi di un pittore quinzanese: Vincenzo Bertoglio

vincenzo bertoglio 01Fisico alto e robusto, viso dai lineamenti marcati e incisivi, occhi espressivi e vivaci, naso aquilino, fronte alta e spaziosa, baffi, barba a due punte e capelli brizzolati e ricciuti sui quali posava un copricapo rotondo e un po' piatto.

Portava le scarpe con la suola di legno, perché diceva che il legno è più igienico del cuoio. Nella stagione fredda aveva sulle spalle un ampio mantello la cui falda scendeva dalla spalla destra e saliva a coprirgli la spalla sinistra, secondo l'uso del tempo.

II suo portamento ricordava molto la figura di Garibaldi, tanto che molti lo chiamavano con questo nome. Il suo occhio educato alla pittura sapeva cogliere sui visi delle persone che incontrava l'espressione che veniva dall'intimo dei pensieri e dei sentimenti, e quando tornava nella sua casa, dipingeva sulle tele delicati pastelli con visi dolcissimi di Madonne adoranti, cui rispondeva lo sguardo d'amore del piccolo Gesù, dal roseo paffuto visetto alzato verso la Madre, tra l'impalpabile svolazzare di veli azzurri. In molte case di quinzanesi si conservano ancor oggi con simpatia e con vivo ricordo diverse sue opere, e non solo pastelli, ma anche sanguigne, carboncini, autoritratti e ritratti a olio della moglie, della figlia, della famiglia, di vecchi, e di personaggi caratteristici del paese.

Oitre a questa sua principale attività, molte altre ne coltivava in un'ala rustica della sua casa, di fianco al giardino: allevava conigli in una serie di gabbie in legno e rete costruite da lui stesso, e andava per prati in cerca di erbe adatte, di pula di fieno, di ortiche per allevarli. Le ortiche poi le usava anche come erbe commestibili o medicinali o per molti altri usi. Aveva seguito a Parma, oltre ai corsi di pittura, anche corsi di botanica, per cui amava molto le piante, sapeva coltivarle e portarle a tempo opportuno e farle rendere il massimo con questa sua passione di naturalistica. Coltivava nel suo giardino lunghi filari di viti di uva verdea e moscato, che poi pigiava artigianalmente, e ne otteneva un buon vino genuino e sano. Aveva cura anche di una fila di arnie, in cui vivevano sciami di api, che gli davano ogni anno una buona produzione di miele.

E trovava il tempo per fare ogni pomeriggio la sua passeggiata quotidiana, per incontrarsi con la gente, per andare a trovare gli amici e fare lunghe chiacchierate con chi lo sapeva ascoltare e comprendere.

lo allora ero una ragazzina e lo vedevo entrare in casa nostra quasi ogni giorno, solo o con la figlia Ginangela, mia amica e compagna di giochi e di scorrazzate nel giardino, nell'orto e nel campo adiacente, mentre i grandi conversavano con lui di cose importanti. Raccontava delle sue viti, dei conigli, delle api, e tutti dovevano ascoltarlo, perché se qualcuno si distraeva o si curava d'altro, alzava improvvisamente il tono della voce, finché tutti tornavano al silenzio e all'ascolto.

Raccontava anche episodi della sua vita, di cui uno soprattutto, dopo molti anni, mi è rimasto impresso nella memoria. «Ho incontrato – diceva – una signora incinta che camminava sul marciapiede a lato della strada. lo sono sceso dal marciapiede per cederle il passo e sono passato al lato opposto della strada, inchinandomi al suo passaggio con profondo rispetto, perché quella era una mamma che portava nel grembo una nuova vita». Questo breve episodio può dare un'idea della profonda sensibilità e delicatezza del suo animo, della considerazione in cui teneva il valore della vita come dono di Dio e segno del suo amore per gli uomini.

Era innamorato del Manzoni e lo citava a memoria molto spesso in varie circostanze della vita, commentandolo in modo acuto e personale, e rivelando così la sua profonda convinzione e la perfetta sintonia del suo sentire col sentire manzoniano. E molto religioso era nel suo intimo, anche se non ostentava spesso questa sua religiosità per un istintivo pudore, e amava molto i bambini (lo si capiva dai putti deliziosí che dipingeva) anche se essí non gli si avviciñavano facilmente, forse un po' intimoriti da quel suo rude e improvviso alzar di voce che ogni tanto gli veniva spontaneo. Più avanti negli anní però, quando il vigore e l'attività fisica s'andava gradatamente attenuando, sedeva a lungo sulla soglia del suo portone, salutando i passanti con un sorriso o con una battuta, e si rivolgeva teneramente soprattutto ai bambini, offrendo loro una caramella o una zolletta di zucchero, insieme a un sorriso e a una carezza, quasi per invitarli ad avvicinarsi e a conversare con lui, che godeva immensamente della loro compagnia.

La vita non gli risparmiò i colpi della sventura: la moglie e l'unica tiglia. che costituivano tutta la sua famiglia e la sola ragione della sua vita, gli rimasero lontane per lunghi anni per motivi di salute; visse cosi circa undici anni praticamente solo in quella immensa casa silenziosa. in cui venivano a mancargli i più profondi atfetti e le persone più care. Eppure mai udii uscire dalla sua bocca accenti di ribellione o disperazione. La fede profondamente radicata nel suo spirito lo portava alla manzoniana accettazione della «provvida sventura», alla convinzione che le sofferenze nella vita vengono da sole anche senza cercarle, ma la fiducia in Dio le addolcisce e le rende utili per una vita migliore.

Morì ottantaseienne in una casa di riposo, lasciando per testamento che la diletta figlia Ginangela, ormai ristabilita in salute, uscisse dall'ospedale dov'era ricoverata per tornare alla libertà della sua casa e delle occupazioni di ogni giorno.

Fu esaudito in questo suo intenso desiderio: la figlia, dopo la sua morte. fu liberata dalle sofferenze della casa di cura, e visse serena nella sua grande casa raccogliendo a piene mani l'eredità della vita limpida e onesta di suo padre.

Molti a Quinzano ricordano con simpatia questa figura singolare e ca ratteristica di uomo, quel suo temperamento un po' strano di artista, che abbinava alla poesia e alla tantasia dell'arte la vita semplice e pratica d ogni giorno. non disgiunta da una profonda umanità e da un senso vivo di religione e di fede, da cui attingeva la forza di affrontare le croci e le amarezze nella serenità della speranza cristiana.

Gesuina Bergamaschi
(La Pieve, a. XIV n. 5, maggio 1988, p. 12)