Umiltà e dignità di una vecchia contadina: Maria Söchèla

Maria Soechela 01

Chi ha detto che negli anni del progresso e del benessere non si deve mai voltarsi indietro e non si deve assolutamente dire con sfumature di nostalgia: «ai miei tempi si faceva così; ai miei tempi si diceva cosa»? È inevitabile per noi, persone un po' avanti negli anni, riandare con la memoria ai tempi della nostra fanciullezza e della nostra adolescenza: là sono le nostre radici, in quello spazio e in quel tempo preciso ci siamo affacciati ignari sulla scena di questo mondo, lodando Dio perché ci aveva fatto come un prodigió e ci aveva elargito il dono della vita.

Abbiamo aperto proprio allora i nostri occhi stupiti e attoniti su quell'ambiente cosi diverso dal nostro di oggi, sulle persone e sulle cose di allora. Possedevamo pochissimo, soltanto il necessario per vivere e per vestire, ma vivissima era la nostra attenzione sulle persone che ci circondavano: alcune di esse infatti sono rimaste così impresse nella nostra memoria, che non potremmo mai più dimenticarle.

Una in particolare mi balza irresistibilmente alla memoria, come se fosse tuttora presente e potessi ancora vederla e toccarla. Ero una ragazzina allora, negli anni '30 e '40, gli anni, per intenderci, della guerra e appena prima e appena dopo.

Era una vedova molto anziana, poco lontana dagli ottant'anni, che viveva di elemosina e abitava sola sola in una stanzetta poco lontana da noi, dove c'erano soltanto le cose essenziali: un letto, una cassapanca, un tavolinọ, alcune sedie, un treppiede di ferro con un catino e sotto un secchio d'acqua.

La stanza era tutta nera e anche buia perché era illuminata da una sola finestrella, dato che la porta era fatta di legno e non lasciava entrare la luce. Però, quando il focolare era acceso, la fiamma mandava guizzi di luce in tutti gli angoli della stanza, che si illuminava e prendeva vita, una vita strana e irreale, al centro della quale spiccava l'ombra nera della vecchina curva e magra, china sul pentolino in cui cuoceva l'unico uovo della sua giornata.

Quando usciva dalla porta della sua stanza e camminava sul sentiero tra l'erba che portava in campagna,sullo sfondo degli alberi e dell'erba verdissima spiccava la sua figura magra e sottile, il suo viso affilato di cartapesta, zeppo di rughe, il profilo sottilissimo della bocca senza denti, il mento sporgente e il naso aquilino, gli occhietti vivaci e attenti, il sorriso un po' enigmatico che ravvivava l'espressione un po' stanca e sofferente.

I capelli lisci e incanutiti erano tirati all'indietro e chiusi in una piccolissima crocchia, e quasi sempre coperti da un fazzoletto nero legato sotto il mento. Sulle spalle aveva un piccolo scialletto nero incrociato davanti, e l'abito in lino casalino ruvido e pesante, di un colore indefinibile molto vicino al nero, stretto in vita e poi arricchito intorno, cadeva largo e ondulato fino ai piedi, un po' più lungo dietro fino a battere sui talloni, e più corto davanti per agevolare il passo. I piedi, anch'essi magri e nervosi, erano nudi d'estate e calzavano grossi zoccoli di legno.

Era analfabeta. Non aveva mai potuto frequentare la scuola perché i suoi genitori non potevano comperarle i libri, e del resto a otto anni già lavorava in filanda: come avrebbe potuto dedicarsi allo studio? Non sapeva una parola di italiano e parlava sempre in dialetto, ma un dialetto colorito, e fiorito anche quello di caratteristici strafalcioni, che rendevano più vivace ed espressivo il racconto delle sue traversie passate e delle storie di ladri e di briganti che era solita raccontare e che io con altre ragazzine ascoltavamo con misterioso timore.

Veniva spesso in casa nostra, una grande cascina dove c'era sempre tanto da fare, e sbrigava qualche faccenda per avere poi in cambio qualche soldino per tirare a campare. Spesso la invitavamo a sedersi a tavola con noi a mezzogiorno per pranzare in compagnia, ma non voleva mai accettare, perché diceva che aveva vergogna: preferiva portarsi a casa un uovo, una pera e un mazzetto di radicchi e mangiarselo per conto suo.

La domenica i miei mettevano in un piatto un bel pezzo di pollo col suo ripieno, verdure cotte e crude, e lo avvolgevano in un panno bianchissimo legato per le quattro cocche e me lo mettevano in mano dicendomi: «Portalo a Maria Söchėla» (così la chiamavano tutti, e non so neppure se avesse un suo cognome).

Ed io me ne andavo fiera di quella missione da compiere, e mi sembrava di trovarmi nella casa del sarto di manzoniana memoria, quando la moglie consegna il piatto alla ragazzina e le dice: «va qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po' allegra co' suoi bambini. Ma con buona maniera, ve'; che non paia che tu le faccia l'elemosina...»

Quando bussavo ed entravo in quella stanzetta, Maria Söchela posava il piatto sul tavolo e aprendo il tovagliolo esclamava: «Ma Dio, ma Dio, quàta ròba bùna! Mé n'ó asé per 'na setemàna 'ntréga. Gràsie, gràsie fés!» Ed io tornavo a casa saltellando di gioia per quella buona azione compiuta e particolamente gradita.

La sera poi nella nostra grande stalla si trascorrevano serate stupende con le famiglie del vicinato che si riunivano per lavorare a maglia e per pregare insieme. La mia zia, che era maestra, leggeva un brano del Vangelo o anche un brano dei Promessi Sposi, perché diceva che era il Vangelo in pratica. Si discuteva insieme di tante cose, si recitava il rosario, si cantavano le litanie o altre lodi della Madonna. A queste serate anche Maria Söchèla partecipava, e a volte raccontava episodi lontani della sua vita passata, esperienze liete o tristi che avevano segnato la sua memoria, come ai tempi della rottura della diga del Gleno, quando una enorme quantità d'acqua si era roveciata anche su Quinzano e su altri paesi, e lei si ricordava di aver visto l'ondata d'acqua entrare in casa sua e travolgere tavolo, sedie, madia e altri mobili e portarli fuori distruggendo tutto in un istante.

Quando poi scoppiò la guerra nell'ottobre del '40, la vecchietta era costernata ed esprimeva il suo terrore in modo molto curioso e originale. «Só 'ndàda – raccontava – a petenàga 'l có ala sciùra Enela (=Elena) e là gh'éra 'na bêla sciùra prefessorèssa, istìda bé, gentile e 'strüida, che la parlàa tutto in italiano, e la ma disia: 'Dònna, Dònna, quèsta guèra non sono una guèra, sono la fì del mondo'. La ghìa pròpe rizù, chèla sciura là. Apò 'l pàpa 'l l'a dit che tutto è perduto con la guèra. Chèla guèra ché la ma fà mörer töcc!»

Esprimeva la paura ancestrale che stava nel fondo del suo cuore, ripetendo parole di persone istruite e autorevoli, parendole forse che le sue semplici parole non sarebbero state abbastanza efficaci a esternare l'angoscia che aveva dentro. E poi continuava però in sordina la sua profonda meditazione: «Ma Signùr, còse farài i nòscc matèi, che i 'ndarà töcc al fronte a combàter? I ma j-a coparà töcc! Quàte màme che piansarà la mórt dei sò matèi! Mé ga n'ó mìga de fiöi, ma se ga n'èse giü zùen, mörarèse del dispiazér». E mentre parlava le scendevano copiose le lacrime dagli occhi e le inondavano il viso incartapecorito scorrendo tra le rughe in tutte le direzioni, e lei le asciugava col grembiule che aveva legato davanti.

E tra le lacrime e i singhiozzi le saliva dal cuore una fervida preghiera: «Signùr, ardì 'n bàs! salvì i nòscc matèi, fij miga mörer an guèra!» Questo dolore e queste lacrime non erano per sé né per la sua famiglia, ma avevano un significato universale di condanna dell'odio e della guerra. Nella sua ignoranza e nella sua semplicità la vecchina aveva capito l'amore di Cristo aperto a tutti gli uomini del mondo. Lo Spirito del Signore dal profondo del cuore le aveva suggerito una preghiera dallo squisito sapore evangelico: la preghiera al Padre per amore di tutti gli uomini. «Ti ringrazio,Padre – è la preghiera di Cristo – perché non hai rivelato queste coseai sapienti e agli intelligenti, ma le hai rivelate ai piccoli».

Poche settimane dopo, entrando nella stalla vuota e silenziosa, la vidi in un angolo buio, riversa su un mucchietto di paglia, con gli occhi chiusi e le labbra violacee. «Maria! Maria!» la chiamai, ma non mi rispose. Lanciai l'allarme spaventata; giunsero alcuni uomini, la sollevarono delicatamente e la riportarono nella sua stanzetta. Qualcuno chiamò il dottore con urgenza. Poche ore dopo era spirata. Il suo grande dolore si era sciolto nella contemplazione del Padre, Dio d'amore e di bontà.

Gesuina Bergamaschi
(La Pieve, a. XXI n. 8, ottobre 1992, pp. ??