Un professionista fra la cronaca e la storia

gandino scipione 3Gran mestiere quello del notaio: mestiere nobile e fortunato, e non dico per questioni di vil denaro, come qualche sprovveduto potrebbe sospettare.

Dei condottieri la storia ha tramandato le imprese; degli intellettuali ha custodito le opere e i pensieri; dei ricconi ha celebrato gli affari; degli scienziati le scoperte. Dei notai, e pure – possiamo dirlo – dei loro taciturni scrivani, il tempo ha salvato le pagine e pagine di tediosi formulari, inventari, atti pubblici e privati, distesi in minuziose calligrafie, o scarabocchiati di geroglifici astrusi, che sembrerebbero voler imbalsamare al volo quelle parole umane, che sono il marchio più solido dell’uomo intelligente e insieme il più inconsistente, fratello gemello del fumo e del rumore, tanto succube del tempo quanto indispensabile per rigenerare la memoria e quindi la storia.

Destino generoso, allora, quello del notaio; ma non per questo privo di una sua raffinata, sottile crudeltà: nel momento stesso in cui rende eterno (di quell’eternità casuale e provvisoria che agli uomini può toccare) il gesto della mano sul foglio, e congela lì quasi quasi la persona viva, come se avesse terminato or ora il suo lavoro e soffiato via la polvere per far seccare l’inchiostro, lasciando qua e là le sue impronte digitali che quasi ti sembra di vederle, mentre compila diligentemente il suo nome e il cognome e i titoli e le ascendenze famigliari, ti nasconde il suo volto e la sua vita, e tu non sai nulla più che il nome di colui che ha appena confabulato amabilmente con te violando una inviolabile barriera di secoli, e nient’altro ti resta di lui se non la voce condensata dell’inchiostro.

Singolare condanna: vendetta temibile del tempo che, quando si crede di ingannare la sua sorveglianza varcando il limite da lui posto, immobilizza per sempre in una condizione né di qua né di là, con una mano nel mondo e l’altra nella fossa; e così fin che dura la memoria.

Notaio e cancelliere

Qualche volta qualche privilegiato riesce, almeno in parte, ad imbrogliare la sentinella in agguato, e lascia di sé un segno un po’ meno evanescente; ma è un caso imponderabile – se si potesse – più di un buon colpo alla lotteria.

Qualcosa di simile dev’essere capitato al notaio Scipione Gandino (1559-1638), di cui abbiamo fatto la conoscenza il mese scorso grazie al contratto da lui stilato nel 1618 per gli affreschi del pittore Gian Giacomo Pasino nella chiesa di San Rocco in Quinzano.

Il notaio Gandino era una personalità di rilievo all’epoca in paese, godeva di una clientela ampia e qualificata sia tra i privati che tra le confraternite e le associazioni religiose, e fu per lungo tempo autorevole funzionario dell’amministrazione pubblica. Della sua attività civica rimangono ampie testimonianze nei preziosi registri dell’archivio storico del nostro Comune (forse non tutti sanno che è uno dei più ampi e antichi della Bassa, ed è stato di recente inventariato, almeno fino al limite dell'unità d'Italia). Le copie degli atti privati da lui rogati nel corso della sua invidiabile carriera (1583-1638), il suo archivio professionale insomma, sono oggi raccolte presso l’Archivio di Stato di Brescia, nel fondo denominato “Notarile Brescia”, in sei faldoni o filze (ai numeri 4637-4642). Sono per lo più contratti di compravendita di beni immobiliari, affittanze, doti di giovani spose, testamenti, permute, divisioni di beni, censi e livelli (particolari forme di piccoli prestiti e di affittanze agricole in uso fino al secolo XVIII); in qualche caso si trovano contratti relativi a edifici pubblici e chiese, o anche commissioni di opere artistiche, ma sono – come al solito – casi rari.

Se fosse tutto qui, non si vedrebbe tuttavia perché mai la sorte di Scipione Gandino dovrebbe essere così diversa da quella dei suoi numerosissimi e certo non meno bravi colleghi contemporanei.

Un nipote biografo

La sua buona ventura fu di avere un nipote: Giovanni (1645-1720), figlio di suo figlio Francesco (1606-1652), appassionato di storia locale e di biografie, e con molto tempo libero.

Giovanni, dopo aver esercitato a lungo con successo la professione medica, fu colpito da una grave affezione agli occhi che, anche per l’incompetenza del maldestro collega che lo operò, lo rese del tutto cieco. Superata l’angoscia dei primi momenti, cercò di ridare un senso alla sua esistenza, dedicandosi a quella che era stata da sempre la sua passione: narrare dei personaggi più o meno illustri che le sue intense relazioni sociali gli avevano dato modo di conoscere, o di cui aveva letto o sentito parlare dai più anziani. Con l’aiuto di alcuni collaboratori, riuscì dunque a recuperare vecchi appunti, documenti preziosi, piccoli ritratti abbozzati, e li fece compilare – non molto ordinatamente, a dire il vero – integrandoli con nuovi personaggi e nuove storie, in un grosso registro di 600 pagine.

Nel 1908 il manoscritto (che l'autore intitola Alveario Cronologico, e non è da confondere con il Giardino de’ Letterati di Quinzano, che è invece la bella copia di solo alcune di quelle biografie), era già piuttosto malandato, sembra fosse in possesso di don Pietro Gandini, discendente della famiglia. Oggi, pur mutilo delle prime 68 pagine (di cui però esiste una copia di primo '900), è conservato con cura e passione dalla famiglia del signor Pierino Gandaglia, che ci ha gentilmente concesso di consultarlo.

Di questa ampia e composita raccolta di appunti, redatta da diverse mani in differenti epoche nei primi anni del secolo XVIII (le date segnate dagli scrivani sono comprese tra il 1702 e il 1716, ma è possibile che alcuni dei testi non datati siano anteriori), avremo modo di parlare più compiutamente in altra occasione; qui basti considerare che, tra le numerose famiglie quinzanesi di cui il medico rievocava vicende e personaggi, non poteva certo mancare la sua, con particolare riguardo per il nonno, cui destina le pagine 433-436 (nel Giardino è alle pp. 198-202).

È questa breve biografia, un po’ gonfia ed encomiastica forse, ma non più di molte altre contenute nel vecchio zibaldone, che vogliamo illustrare ai lettori, per delineare più da vicino l’immagine del notaio che ci ha permesso di conoscere, attraverso i suoi rogiti scrupolosamente conservati, alcune tappe importanti della cultura e dell’arte nel nostro borgo durante il secolo XVII.

Uomo esemplare

In poco più di tre paginette il nipote (che non poteva aver conosciuto il nonno se non di fama, essendo nato soltanto nel 1645, ossia sette anni dopo la morte di lui) delinea, nel suo consueto stile ora ruvido ora untuoso, un profilo professionale e morale piuttosto interessante di Scipione, che lui chiama «L. Scipione» (forse Lucio) nell’eco di antiche reminiscenze classiche. Ne emerge la figura di un personaggio austero nelle convinzioni e negli atteggiamenti, saldamente legato alla tradizione di una dignità tanto esteriormente manifesta quanto radicata nell’intimo, umanissimo nelle sue qualità civiche e nelle relazioni sociali, e sinceramente dedito alle devozioni religiose.

L’ascendenza per parte materna dal domenicano arcivescovo di Sorrento Giulio Pavesi (1504-1571), senza dubbio il più illustre tra i non pochi ecclesiastici di origine quinzanese di tutti i tempi, lo colloca subito in una condizione distinta nell’ambito della religione. E il nipote insiste sulla assiduità del nonno in fatto di letture bibliche e patristiche, e sulla sua singolare predisposizione a farne partecipi gli altri: un catechista nato. In questo medesimo programma educativo si può interpretare ancora la sua spiccata devozione per i defunti, che non gli faceva perdere un funerale per quanto povero, sempre nell’intento di confortare le famiglie addolorate con il soccorso della pietà e della speranza evangelica. Inconsueta era pure la sua abitudine di recitare «l’Oficio grande de Preti», la preghiera salmodica quotidiana del clero, che all’epoca era particolarmente lunga e complessa, certo non alla portata di tutti i laici, e talvolta nemmeno di tutti i preti.

Intellettuale illuminato

Aspetto complementare della personalità di Scipione era quello relativo alla cultura letteraria e giuridica, che costituiva la base della sua professione. La biografia annota che i suoi studi si incentrarono sulle «Leggi Canoniche, civili, municipali e specialmente delle Ragioni della Comunitá». Era dunque esperto in ambe le leggi, come si diceva allora, ossia nelle leggi ecclesiastiche e civili, con specializzazione nella legislazione municipale e comunale: ciò spiega la sua carriera di «Canceliero Ordinario della Comunità», oggi diremmo “segretario comunale”. A un certo punto fu persino «desiderato dal spetabile Territorio di Brescia», gli fu cioè proposto un autorevole impiego alle dipendenze del governo cittadino nella amministrazione della zona rurale sottoposta a Brescia. Rinunciò al prestigioso incarico per amore del suo paese e della famiglia, oltre che per provvedere direttamente alla gestione dei suoi beni, come testimoniano parecchi documenti relativi a compravendite e transazioni commerciali a suo nome tra le carte di altri notai quinzanesi contemporanei.

La professione principale fu, comunque, per lui il notariato, che esercitò a partire dal 1583: il primo atto conservato tra i suoi documenti all’Archivio di Stato di Brescia (filza 4642) è la bella pergamena con cui, dopo un periodo di tirocinio presso un collega, gli viene ufficialmente attribuito il cosiddetto tabellionato, ossia il diritto di esercitare la professione di notaio, e il relativo simbolo grafico con le iniziali «S. G.», anch’esso chiamato tabellionato, per marcare i propri rogiti. Esercitò quindi fino alla morte, per oltre 55 anni, in paese e nei dintorni, specialmente come cancelliere (segretario) «di queste Scole», ossia delle associazioni religiose di Quinzano, per le quali produsse diversi tra i documenti che ce l’hanno reso noto e che ne fanno una delle principali fonti documentarie per la nostra storia locale di quegli anni.

Lo stramazzo di san Carlo

Da buon cronista, il nipote medico non trascura di appuntare alcuni episodi, che per lui in qualche modo inquadrano la cifra morale del personaggio, mentre a noi aprono uno spiraglio vivace sul clima sociale e civile che aleggiava in quell’epoca, così lontana da noi e così carica di profonde inquietudini e diffusa violenza.

L’esperienza più memorabile – a dire del biografo – l’evento che segnò l’esistenza intera di Scipione e della sua famiglia dopo di lui, fu senz’altro il fatto di aver avuto, non più che ventunenne, «l’honore di complimentare a nome della Patria San Carlo Boromeo Arcivescovo di Milano, quando quì venne a fare la sua Apostolica Visita» la sera del 29 giugno 1580. Non solo; egli godette addirittura il privilegio di ricevere dalle mani del cardinale la comunione, e fornì gli arredi per la camera nella quale il santo riposò durante il suo soggiorno in Quinzano. La camera era nella residenza del parroco don Fabiano Gavazzone, nel luogo dove un tempo sorgeva la casa del poeta Gian Francesco Quinziano Stoa, mentre al tempo del medico Gandino vi aveva sede il collegio delle Dimesse; l’edificio è oggi quella parte delle scuole medie che fa angolo tra via Robino e la piazza IV Novembre. Fa sorridere, nella suo ingenuo candore, il cenno risentito allo «stramazzo» (materasso) sul quale dormì san Carlo, conservato con indicibile devozione dalla famiglia ancora dopo quasi centocinquant’anni, come una straordinaria e preziosissima reliquia. Il biografo non perde occasione di celebrarlo più volte con scrupolo nel suo manoscritto: se avesse potuto, credo ne avrebbe fatto lo stemma del suo casato.

Contrappunto civile – per così dire – alla sacra ospitalità offerta al Borromeo, è l’episodio della principesca accoglienza nel 1592, sempre per conto del Comune quinzanese, del nobile Benedetto Moro, capitano generale di Brescia, con il suo seguito d’una cinquantina di persone, e quasi altrettante della deputazione locale, in una cornice di spagnoleggiante fastosità, e senza badare a sperperi di luminarie e cibo, a testimonianza di una dignità formale che era qualità imprescindibile dell’uomo civile nell’età barocca.

Un caso di racket

La vicenda che però mi pare più interessante, per il suo valore di documento di una mentalità che potrebbe apparirci lontana, eppure non è del tutto estranea al nostro modo attuale di intessere i rapporti sociali, è quella – per la verità raccontata in maniera non proprio limpidissima – della «ciurma de banditi scelerati». Il fatto serve al biografo per documentare la «notabile intrepidezza del Animo suo mostrata nelle cose averse» e, dietro il linguaggio moraleggiante, sembra alludere a un episodio di estorsione, oggi diremmo di racket, ai danni dell’azienda agricola di un figlio di Scipione, forse appunto il padre di Giovanni.

Il ricatto si manifesta nei confronti dei «massari de beni della Casa», cioè gli amministratori dei fondi della famiglia, con minacce di ritorsioni contro le bestie di loro proprietà, ossia di «taliare li piedi ai loro bovi et ogni loro armento» nel caso che i massari avessero osato continuare a prestare il loro servizio al padrone. L’intento era quello di «por l’assedio alla Casa», di imporre un blocco delle attività in cambio – si può supporre – del pagamento di una congrua tangente. Non mi sembrerebbe improprio definirla una intimidazione mafiosa in piena regola, nel segno della diffusa violenza pubblica e privata, spesso addirittura istituzionalizzata, che caratterizzava quel secolo, per altri versi così colto e sensibile (non c’è proprio niente di nuovo sotto il sole).

La reazione dei Gandini alla grave provocazione appare ispirata alla saggezza del capo famiglia: si decise di soprassedere momentaneamente ai lavori agricoli, dirottando le maestranze in altre proprietà, con l’intento però che il lavoro forzosamente prestatovi per qualche tempo dovesse essere restituito al momento opportuno dai dipendenti delle altre aziende. Si organizzò quindi un ritorno in massa dei lavoranti nel podere minacciato, con il sostegno dei colleghi dei fondi vicini, verosimilmente minacciati di analogo ricatto. Tra gli operai alcuni dovevano occuparsi dei lavori, altri erano opportunamente armati per la eventuale difesa dagli aggressori. Non mancò chi si offrisse di togliere di mezzo il capo banda in cambio di una ricompensa neanche troppo esosa, ma la civiltà e lo spirito cristiano del notaio Scipione impedì di perpetrare un delitto, sia pure mirato a evitarne un altro più grave. E la fiducia nella volontà riparatrice dell’Onnipotente non fu vana, visto che ben presto scoppiarono rivalità tra i banditi, in seguito alle quali il capo restò ucciso insieme ad altri compagnoni, mentre i sopravvissuti, sbandati e senza guida, «in breve tempo passarano sventurati a finire le loro vite su le forche».

La vita dignitosa e giusta del nostro protagonista si chiuse poco prima degli 80 anni («sopra li 80» nel manoscritto deve significare “circa”, poiché li avrebbe compiuti dopo meno di tre mesi), il giorno di San Martino. Il devoto biografo gli attribuisce qui meritatamente due forme – diciamo così – di immortalità: nell’ambito famigliare e in quello sociale, che erano stati i campi dell’impegno più generoso e convinto del vecchio notaio. L’immortalità famigliare fu per lui la numerosa prole: di tre figli religiosi, due figlie maritate e un figlio che, ammogliato secondo il perfetto gradimento del padre, gli diede la continuità del nome attraverso i nipoti; l’immortalità sociale è incarnata nelle «trei Croci d’Oliva Benedetta» che Scipione, quale sovrintendente del Comune alla costruzione della nuova torre di San Faustino, depose con le sue stesse mani nelle fondamenta alla posa della prima pietra (1604).

Ma la vera eternità, nel limite che all’uomo è consentito dalla sorte, il notaio Scipione Gandino la ebbe dalle carte dei suoi rogiti e soprattutto dalla pagina stentatamente dettata dal nipote ormai vecchio e cieco allo scrivano: quella pagina che oggi noi leggiamo e che lo fa un poco nostro contemporaneo, se non nella esperienza della vita, almeno nella nostra curiosità.

Tommaso Casanova
(L’Araldo Nuovo di Quinzano, a. IV n° 28, febbraio 1996, pp. 3-4, con aggiornamenti)

Riferimenti documentari e bibliografici

  • Giovanni Gandino, Biografia di Scipione Gandino, notaio,
    Alveario Cronologico, pp. 433-436; Giardino de letterati di Quinzano, pp. 198-202

  • Bassini, Giacomo, 1908
    “Un medico illustre. Giovanni Gandini”, Illustrazione Bresciana, a. 7 n° 108, 16 febbraio 1908, pp. 5-8
  • Nember, Giuseppe, 1934
    “Uomini illustri di Quinzano d’Oglio” Note bio-bibliografiche con aggiunte a cura di mons. Paolo Guerrini, Memorie storiche della diocesi di Brescia, a. V, pp. 67-140; ora in ristampa anastatica [Giovanni Gandini è il n° XLIII, p. 120].